Si deve a grandi luci la nostra conoscenza di uno dei più grandi poeti del Novecento, Fernando Pessoa (1888-1935). Luigi Panarese, Giuseppe Tavani e Antonio Tabucchi, lusitanisti, ma soprattutto occhi sugli occhi. In quegli sbalzi e sperdimenti dei nomi che circondano il suo sentire poetico.
È una cantica visiva il suo bordo di parole, tanti autori come una cromatura variegata di voce che siglano le pagine di poesie, saggi, diari e riviste come un “baule pieno di gente”: Reis, de Campos, Caeiro, Bernardo Soares, Coleho Pacheco, Alexander Search.
Il suo discorso è una trama di inquietudine, di confusione dell’io, di turbamento, di bisogno insopprimibile che arriva persino a calcare le sponde dell’autodistruzione e del nulla: <<Sull’orlo del precipizio / giochiamo danzando. /………/ Sull’orlo del precipizio/ giochiamo sorridendo / sull’orlo del precipizio / dove cadremo>>.
Scopre questa esistenza lacerata e lucente, sin da piccolo, con lo sradicamento e la solitudine, con quelle lettere firmate e destinate a un amico immaginario: lo Chevalier de Pas. Poesia che si gioca sui fili delle vie e delle astrazioni della lingua, che cerca di definire l’indefinito nei segni, nello straniamento. Un’infinita dialettica che transita nei rettangoli cittadini di Lisbona (pensioni, camere, trattorie, il quartiere dei caffè) e nella ricerca di un luogo da dare al proprio nome, come testimonia pessoa, che in portoghese vuol dire “persona”: << C’è un universo anche in Rua dos Dourados, anche qui Dio concede che non manchi l’enigma di vivere. Altrove, senza dubbio, esistono i tramonti. Ma perfino da questo quarto piano sulla città si può pensare all’Infinito. Un infinito con magazzini sottostanti, è vero, ma con stelle all’orizzonte.>> (Il libro dell’inquietudine)
In quell’orizzonte l’io si contraddice spesso ma esplode. Esplode perché non riesce a contenere il proprio dettato, come testimonia quell’8 marzo del 1914 in cui nacque Alberto Caeiro dalle sue mani e dal suo sangue. Così come quell’intimo spirito dell’universo che abita e attraversa, una voragine di suoni e profumi, visti nelle giornate limpide e in quelle piogge di temporali, nelle nuvole in corsa verso l’ignoto.
Si chiama ‘metafisica delle sensazioni’, come suggerisce Piero Ceccucci, che mette in moto una percezione lucida e dolorosa: <<Così presto passa tutto ciò che passa! / così giovane muore ciò che muore/ davanti agli dei. Tutto è così poco!>> e ancora <<L’essenziale è saper vedere senza stare a pensare, / saper vedere quando si vede, / e non pensare quando si vede (…) / ma questo esige uno studio profondo, / un imparare a disimparare>>.
L’immaginazione e il flutto del reale sono una materia di lavoro e di sensazione, spesso arida come nelle Odi di Ricardo Reis, o quelli del poemetto Tabaccheria, dove sentire è pluralità, movimento perso tra tempo e spazio, frantumo di sogno compensativo e trascendente.
Poeta del rifiuto e della debolezza del non-fatto. Così come in quello sproposito imploso dell’amore, troncato, sperso.
Egli vede il suono delle cose e della vita e così toglie il fiato, in una luce feroce e irrisolta: <<Un fiore ha bellezza? / E un frutto?/ No: essi hanno colore e forma/ ed esistono, soltanto. / La bellezza è nome di qualcosa che non esiste, / che do alle cose in cambio / del piacere che mi cedono. / Non significa nulla. / Ma allora perché dico delle cose che son belle?>>.
Però dentro questa irresolutezza si aprono dei varchi di continuo, una sete di oltre per scorgere l’infinitudine nella pescivendola o il vigile urbano così come lo guarda Dio e scoprire che l’io non è una monade ma si risveglia solo nella relazione con l’altro: <<Valse la pena? Tutto vale la pena / se l’anima non è angusta / Dio dette al mare pericolo e abisso / ma è nel mare che specchiò il cielo>>.
Una ferita aperta, un tedio, un’enunciazione religiosa profonda e conflittuale, spesso dileggiante, senza conversione, ma dove si apre l’esigenza di un rapporto da abbracciare e in cui farsi abbracciare. Un gesto dell’anima ampio dove poter lasciare le braccia, come vibra nella composizione per la Vergine Maria.
Scrive Piero Ceccucci: e ciò spiega per quale insopprimibile sollecitazione e ossessiva tensione spirituale il poeta, con più o meno intensità, abbia lavorato per tutta la vita attorno alla testualità delle questioni esoteriche, avvertite come possibili cammini metafisici verso l’Oltre e verso lo svelamento del mistero (…).
Muore il 30 novembre, giorno di sant’Andrea apostolo, del 1935, per una crisi epatica a 47 anni disse <<Datemi i miei occhiali>>, una mancanza acerrima di qualcosa, un mondo da vedere e da vivere.