Il senso di “Gomorra” sta tutto nella sua scena iniziale: un gruppo di affiliati in fila per la lampada settimanale, neomelodici in sottofondo, partono gli spari e “La nostra storia” di Raffaello ad accompagnare i titoli di testa. I camorristi sparano sentendo canzoni d’amore. Sta in questa e altre brucianti contraddizioni il riassunto di una tragedia inestricabile, che puoi raccontare ma non puoi risolvere, che puoi osservare ma di cui non puoi addossare colpe. Le immagini crude e pulp di Garrone ci restituiscono il cuore del Sistema ma soprattutto le voci, gli odori, i suoni di una Napoli disperata che trovi ogni giorno sotto i tuoi occhi se vivi in città o in provincia. Nel film a sparare sono quelli che lo fanno davvero nella vita, non interpretano personaggi ma sé stessi. Nessun regista si era mai spinto così lontano, far interpretare dei criminali a un cast intero di criminali veri, che solo con le loro facce si fondono con la storia che raccontano. Lo stile neorealistico viene superato dal racconto in presa diretta di un dramma ancora in corso, perenne e irrisolvibile come tutto il resto a Napoli. Le cinque storie che si affiancano senza intrecciarsi rappresentano cinque volti diversi della parola Sistema, dagli affari alla forza di fuoco, dai falsari ai bulli di paese. Difficile scegliere il più realistico o quello più simile a quanto raccontato nel libro. Il film sceglie di staccarsi dal testo originale per far percepire anche le pieghe più nascoste della realtà, partendo dalla scelta linguistica di un dialetto onnipresente (come nella vita reale, appunto) e di un italiano relegato a lingua rara e straniera. I pochi attori professionisti del film (Servillo e