Print This Post

I baci d’amore di Juan Meléndez Valdés

Juan_Meléndez_Valdés_(1797)

La poesia di Juan Meléndez Valdés (1754-1817) è una porzione di geografia interiore e «autobiografia del cuore», come sostiene Emilio Palacios Fernández.

Dopo le condensazioni anacreontiche dell’inizio, le sproporzioni forensi, l’insegnamento letterario e la carriera da magistrato, scrisse I baci d’amore (1783 ma pubblicato solo nel 1894 dopo il ritrovamento del manoscritto), nati sulle vertiginose espressività del poeta olandese Johannes Secundus (Basia), celebrano la congiunzione astrale di mondi diversi e la congiunzione dell’amore con la naturalezza (Emilio Palacios Fernández, p. 17), che ancora non lasciavano presagire le connessioni riformistiche e politiche, la transizione romantica, fino all’esilio francese, dove egli lasciò la sua ultima impronta.

Non un semplice sobbalzo che percorre la presenza della poesia, quando essa si comunica, aprendosi, ma il racconto degli occhi e della pena, del dolore e del confine, del servizio d’amore e delle sue figure, vissute in una giubilare sospensione sui tratti, che assomigliano a spazi vicini, come pennellate o graffi immobili, per aprirsi al dono e subire il duro colpo lucente nell’amore imminente e nei baci enumerati, come cerimoniale di tutti i respiri ora intensi, ora giocosi: «I baci deliziosi / che frammisti agli assalti / dolcissimi di Venere / mille volte ti diedi, / e quelli che al tuo labbro, / baciandomi sereni, / più dolci ancor del miele / felice ti rubai, / in numeri sonori / la mia musa ripete, / e il mio amor, Galatea, / umile a te consacra» (Ode i, vv. 1-12).

La fenomenologia olfattiva e gustativa disegna la lirica di una linea sospesa e gracile che individua nell’esattezza della terminologia e del dettato un docile segno di piacere e malinconia, un’ardente vitalità e agnizione leggere: «Quando la prima volta / a Nise diedi un bacio, / di amomo e cassia in fiore / l’alito suo spirava, / e dalla dolce bocca / le mie labbra raccolsero un dolce miele come / mai diede il colle ibleo; / così per suscitarla / con idropico affanno / mille volte e poi mille / ogni giorno la bacio, / ed esaurito il numero, / torno a darle di nuovo / più baci che al suo Adone / dar potè l’alma Venere» (Ode II).

La tattile sospensione è il teatro in cui il bacio si esprime come unione di contrasti stuporosi, laddove la stoffa del tessuto amoroso, solo apparentemente decifrato nello slancio intellettuale o nella sintassi concettosa, diviene forza e abbandono di dettaglio, respiro e movimento. La sua posa non ama la frenesia spasmodica, per quanto brillante e sfuggente di un attimo conclamato, ma si appropria del richiamo della realtà, della salmodia del tempo e non cede al ricatto di una energia fine a se stessa, ma comunica al mondo il ritmo del suo divenire esistenziale e metafisico, e la sproporzione del tempo che passa.

Scrive Mario Di Pinto:

«[…] i Besos di Meléndez Valdés sono quasi casti: essi sono erotici ma non osceni, celebrando l’amore nella sua interazione di sentimenti, desiderio, gioia di vivere, ma senza oltrepassare mai il confine della decenza. Ma soprattutto sono poesia, espressione dell’ineffabile, alla ricerca di un codice dell’eros che non si esaurisca nel compiacimento di una semiologia trasgressiva, ma sperimenti un linguaggio allusivo delle sensazioni fisiche e spirituali dell’amore, lungo un iter analitico che porti alla liberazione finale, o trasfigurazione, o catarsi» (p. 9).

 

I passi tracciati narrano parole chiave: un taglio e un’ombra che accolgono nella profondità delle linee, inseguendo, da un lato, la lezione dei classici latini (Orazio, Ovidio e Epitteto, in particolare), rinvenuti e sospesi in una cornice di tempo, dall’altro, approdano e scompaginano il materiale significante, in una originale lettura affettiva.

Nei paesaggi, la poesia fa i conti con il rumore della pienezza. È l’esito di una carità febbrile che non dissipa, bensì si curva per mettere il fiato nel ricovero e nella custodia di un campo inseminato, di un allegro locus amoenus, dove celebrare il fasto passionale e mortale di ciò che non ha fine:

«La descrizione naturistica, compagna di tutto il bucolicismo allora dilagante, fu in lui, più che una convenzione retorica, un ricorso tecnico, una base di sperimentazione espressiva o, se si preferisce, uno spazio fittizio, e dunque un supporto della poesia. Grazie a questa tendenza alla metafora e al simbolismo, egli puntava a una deviazione massima del linguaggio, una deformazione del reale ottenuta grazie a una scrittura attentamente analogica» (Mario Di Pinto, p.12)

Il compito dell’artista è guardare il mondo, superando ciò che dispone o di-segna: guardare veramente il mondo nella sua paziente attesa, nella sua croce e pazienza infinita. Impastarsi con l’attesa e vestirsi di ciò che c’è, per scriverne con un lucente fallimento, come stare all’erta di qualcosa che irrompi.

Le illuminazioni frequentano spesso la tenebra per saldarsi, battono il loro respiro lento, la notte, delle distorsioni e dell’essere viceversa all’infinito, e dove l’oggetto d’amore, il suo ardore, la sua pazienza, il diminutivo, l’apposizione intensa sottolineano la spoliazione enumerata della carne, la nudità come arcadia, il simulacro sinfonico.

La sua palomita è la vertigine di un nome che richiama al mondo vibrato e rapito, bellezza candida che unisce brazos e vientre, labios e boca, dove la freschezza e il nettare del calore segnano sensazioni e ossimori in un’unica frangia esplosa di desiderio accresciuto, fino alla deliquescenza, fino all’amore che viene in tutta la sua potenza estenuata e cadenzata: «Così, Nice, giochiamo, / così, finchè nel fiore / noi due possiam godere / la dolcezza di Venere. / Né si perdano invano / i nostri anni migliori, / chè già con mille acciacchi / s’affretta la vecchiaia / e quando è qui, mia vita, / e la forza è perduta, / ahimè!, l’oscura tosse / verrà presto a vendetta / della lotta e del gioco» (Ode iv, vv. 36-48).

Il destino non ammette ambiguità. Si può essere un granello, farsi canto d’amore o ira o conoscere il volto per amarlo, carezzarlo nonostante il dolore, la porta chiusa, la perdita, la ferita che non ha requie nei suoi millimetri di buio acceso. Le immagini prosastiche hanno rapidi tratti, disegnano brevi anacreontiche e compongono sospensioni decise. Ed ecco che, in nome del giorno, si percorrono bordi e cigli, l’osso del respiro, prima dell’argento del fiato buono.

La sensualità, l’intimismo, i fiori, i colori, le parole quasi esplorate al cuore dell’amata compongono il suo meandro di rinvio e fuga insonne. La brillantezza dell’essenziale, allora, se da un lato si offre come possibilità di tempo liberato e non ricattato, dall’altro percepisce la “lentezza” della libertà, e quindi, l’apertura del pensiero.

La stagione poetica ha la fecondità-primizia di uno spazio esplorato, di un cosmo raccolto e infine dell’incisione del contatto. Poiché il contatto con la stoffa della realtà è il suo ornato, il rigore esatto e lucente di una obbedienza: «[…] e se sulle tue labbra / dolci baci poi liba, / tre volte e più felice / lo dirò per tal sorte; / e se poi nel tuo letto / di ammetterlo ti degni, / non lo chiamo felice / ma un dio, un dio, mia Nice» (Ode v, vv. 5-12).

L’io che si dona, si pone in ascolto, celebra il barlume della quotidianità vivente e condivisa, è disposto a perdere il proprio fondo, per restituire il mistero, il cuore disvelato, la domanda di se stessi e la sproporzione: «Ti chiesi un dolce bacio / e nel darmelo, Nice, / dalla mia bocca il labbro / così presto distogli, / come fugge impaurito / chi calpesti nell’erba / la vipera, ugualmente / da me allontani il volto. / Ahi! Questo non è darmi / un bacio, ma una viva / ansia d’esser baciato / mille volte, amor mio» (Ode vii).

L’essenziale è il territorio del respiro, o meglio, diventa compito del respiro conoscerlo e riconoscerlo. È nell’amore, con la sua misteriosa linea dura e vivente, che il dispiegarsi del “Tu” rivela e disvela il colore profumato della grazia e della gioia, la sofferenza solitaria, la declinazione e il dono proteso, come metamorfosi di limite trasfigurato e glorioso: «Sulle tue dolci labbra / quando riposo, mia signora, / suggendo dal tuo alito / il profumo dei fiori, / come uno degli dei / che stanno sull’Olimpo / mi sento, e più se tocca / ventura più gloriosa. / Ma appena ti allontani, / io, che pur ora un dio / mi tenni, e più, se mai / qualcosa fu più grande, / dell’Orco già mi sento, / ahimè!, nell’ombra nera, / e più, se mai un destino / fu più vile e penoso» (Ode ix).

La materia creativa della realtà invoca l’attraversamento della libertà, che si lascia penetrare dall’intimità elementare e immediata dell’essere, e, attraverso tocchi ripidi e rapidi, restituisce un’emergenza e una conoscenza di sguardo : «[…] quando dolce mi baci, / e annienti questa mia / caduca, che l’ardore / con la sua forza accende, / quell’ardore che nutre / il mio petto impotente, / lo burli e lo conforti / con un soffio: aura dolce / che mi ridai calore! / perduto allora esclamo / che degli dei è dio / Amore e che nessuno / è più grande di Amore. / Però se qualcun altro / lo superi in altezza, / solo tu sei più grande / di Amore, bella Nice » (Ode x, vv. 16-32).

Ma questa curvatura e questo spasmo non si limitano dire il limine d’amore e il suo ritmo, ma anzi tentano di riavvolgere le mappe e il piegarsi della terra, per la promessa di un eterno principio. La sorpresa dello sguardo, lo stupore di quel che rimane quando tutto sembra crollare, il desiderio oltre-limite e il sapore del giorno celebrano l’orizzonte ventaglio dei viaggi, il punto che si curva per restare, l’epifania che conosce prossimità e avvenimento: «Vuoi rendermi felice / Nice? Nègami sempre i baci ch’io ti chiedo, / in modo che io possa / rubandoteli in bocca, / gustarli anche più dolci» (Ode xi, vv., 41-46).

Questa poesia che conosce e sconfina, morde la grazia per vivere, si affianca al dato dell’esistenza per celebrarne il sofferto e lucente accadimento. Ed è con la sua trama misteriosa e la sua lingua duttile che l’amore, che in essa proclama tutto il suo bagliore, sogna e tocca la ritrosia della memoria dolcissima, la rinascita impossibile del tempo: «Con questa dolce vita / ricompensa, Amarillide, i dolori / nati dai tuoi rigori, / da oblio e fe’ perduta, / e sia premio ad entrambi / quell’amico possesso che Amor vuole; / già sai come premiare / l’affetto mio, e ancora ho nel ricordo / la dolcissima gloria / dei tuoi baci soavi / con cui mi desti un giorno / esca al mio amore e forza al mio ardimento» (Ode xii, vv.55-66).

Il prezzo della parola è la libertà di qualcosa che cerca la vita, come perla d’aria e memoria tenue. La capacità di decifrazione del segreto del mondo e l’ulteriorità della parola testimoniano una vertigine metafisica in cui lavora il silenzio, la sua geografia, il fraseggio della domanda elementare al colmo del suo bagliore: «Che vantaggio ha nel buio / racchiudere l’amore? Se alla luce / posso goderlo in pace / senza che avara neghi / la divina Amarillide il suo volto?» (Ode xiii. vv. 71-75).

I toni di cui si impossessa l’intimità poetica trascina in profondità, ed è nella proprietà della rarefazione che essa puntella il verso, lo scalfisce, lo modella per conoscere la gemmazione delle lamine dell’orizzonte poetico che hanno rimbalzi specchiati, domanda continua e addensata. Ed è proprio l’addensarsi, l’oscura e vibrante parola che sconfina nella sua poesia, forse la traccia immemore che si ricompone naufraga.

La lotta, allora, tra inclusione ed esclusione non ha vincitori. Anzi, semmai, queste due forme umane sembrano fondersi sia nei paesaggi di luce sia nelle barene dell’oscurità traslate. È il contrasto umano che si abbandona per vivere, che incontra l’approdo lucido e remoto alla pienezza dell’essere che intaglia la terra, cesellandola e ornandola, che nulla esclude o censura, spingendosi in un abbandono ricolmo e in una umida trafittura, dove nell’io lirico si lasciano convivere l’estasi e il limite, la morte e il disfacimento del passato, la simbologia messaggera e l’atto d’amore, la “lasciva” promessa di ciò che si congiunge .

Il paesaggio della sua poesia non si misura con il vuoto, anzi, nella sua percezione sensoriale, avviene l’attesa del prodigio e ciò che accade scontorna l’incontro di cielo e terra ed è per questo che il posarsi dell’amore si fa coltre radicale e matura e orizzonte di gioia precisa.

Il germoglio della natura (e le sue stratificazioni care a Bacco e Cupido) rappresenta la preda e l’intuizione dell’io, il dato vivente, il gioco oltre-tempo e la dismisura sbrecciata, per farsi, agostinianamente, carnale fino allo spirito e spirituale fino alla carne.

I suoi steli di luce fresca sono vertigine di nomi amati e assenze che spengono la solitudine nel silenzio amante: «Darei, tenera Nise, / con amoroso affanno / alle tue fresche gote / e agli occhi tuoi parlanti / e alle purpuree labbra / cento splendidi baci, / centomila alla gola, / e ai tuoi candidi seni / mille per mille e tante / migliaia come il cielo / ha di stelle ed il mare / ha sabbie nel suo seno» (Ode xiv, vv. 1-12).

Una poesia di limite primario, quindi, che tenta di superarlo per farsi canto o promessa, voce rada e prominente, e soglia di ritorni. La figura amata scintilla nei cristalli d’amore, tratteggiata con dolcezza e senza sentimentalismi, per guardare oltre il vetro, per essere la rinascita tacita che ama respirando la vita che viene.