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I confini di Colm Tóibín

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Il passaggio alla poesia per Colm Tóibín, grande scrittore irlandese che da tempo vive e insegna negli Stati Uniti, e il cui Vinegar Hill[1], che ricorda la lotta per l’indipendenza irlandese nella sconfitta del 1798, viene pubblicato da Interno Poesia, a cura di Philip Morre e Giorgia Sensi, con prefazione di Patrick McGuiness, è una distesa sospensione, in cui lo stesso processo immaginativo si dispone come trama visiva, in cui le vicende dell’io, come afferma Roberto Galaverni:

«chiamano regolarmente in causa gli altri o, detto altrimenti, sono parte di una vicenda più ampia e complessa, collettiva appunto, che non coincide affatto però con la cosiddetta grande storia, avvertita come qualcosa di estraneo e di sospetto, e che si può definire semplicemente come la vita di tutti. […] Il tempo, dunque, e allora anche la mortalità: è proprio questo il motivo centrale della poesia di Tóibín, e così il suo rovello, il suo movente, il suo fuoco».[2]

 

La sua poesia, dunque, sfiora l’intimità dell’agnizione e della rivelazione (come avviene in Los Angeles nel suo fulgore apocalittico), delle relazioni memoriali, viste attraverso la personale perdita mitica e collettiva che attraversa la solitudine delle curve («La città si incurva. La volontà più brillante / è aperta. Sono qui da anni io. / Ci sono luci e fili; c’è una certa / bellezza. È quasi sufficiente») e la mortalità: «Mi piacerebbe poter raccontare / qualche premonizione: che previdi l’acqua / che correva lungo gli stretti corridoi, che ci / svegliava, e poi il buio totale / e la gente che gridava in lingue baltiche / e poi l’acqua che copriva tutto, alla fine / perfino la nave. Ma la mia era una notte come tante, / e arrivammo a Tallinn proprio mentre arrivava il giorno».

Patrick McGuinness, nella prefazione scrive:

«Le poesie di Vinegar Hill sono l’opera di uno scrittore che ha vissuto interamente con la poesia. Toibin ha scritto con perspicacia dei poeti che ama e da cui ha imparato – in particolare Elizabeth Bishop e Thom Gunn. C’è anche un motivo tipico di Auden nella responsabilità della poesia di essere attuale, di capire la storia e il nostro posto in essa. Le sue poesie esprimono identità e solidarietà complesse e a diversi livelli: nazionali, sessuali, famigliari, comunitari o nazionali, ideologici o religiosi. Le sue poesie, come i suoi romanzi, si dedicano a quei momenti in cui queste identità si connettono o si sovrappongono, o collidono e si scontrano. Toibin sa anche che, oltre a sceglierle, noi ereditiamo identità e comunità» (p.11).

La chiarità delle pause e dei silenzi, la sobrietà diretta dell’essere, la mancanza di ornamento supera ogni barriera di sentimentalismo, percependo mancanza e forza di abbandono: «Non ci sono barche per portarci via. / Una piccola roccia, disordinata, mascolina / si muove, cade. Le ruote stridono e schizzano. Sono troppe le cose che mi mancano».

Tóibín si confronta con la morte in modo diretto, ma non senza speranza. La sua poesia, spesso, esprime un senso di assegnata assenza, ma c’è anche una forza latente che emerge nel modo in cui l’autore accoglie l’inevitabilità del cambiamento e della fine. Essa si confronta con la narrazione del vivere e la palpabile tumefazione della finitudine.

È l’esperienza dello stare al mondo, vissuto nella memoria degli oggetti, della lontananza («La terra notturna era umida, puzzava, acre e rancida: / suono di un chiavistello tirato, una chiave girata, poi quiete ora che anche gli anni sono fuggiti») e delle ombre intime.

Vinegar Hill non si presenta come un’opera isolata nella carriera di Tóibín, ma piuttosto come una naturale estensione delle sue precedenti riflessioni sulla memoria e sull’identità. Ad esempio, il testo omonimo che ricorda sua madre, intenta a dipingere la collina che si vede dalla loro casa, esibisce una forte carica osmotica di storia personale collettiva.

Qui la genesi lirica penetra nel fondo di ogni possibilità di vertigine e di colore del mondo: «Di che colore è Vinegar Hill? / Come si alza al di sopra della città? / È rotonda, con una gobba. / Non ha senso invocare / la Storia. La collina è altro, / intrattabile, impenetrabile, serena. / È in ombra, poi in luce, / e spesso coltra fra le due / quando l’azzurro diventa grigio / e sfuma ancor di più, il verde luccica, / e poi non così tanto. Anche la roccia / brilla nella luce pomeridiana / che cala e le toglie il lucore».

In molti suoi romanzi, come Il testamento di Maria e Brooklyn, Tóibín esplora il rapporto tra passato e presente, e lo stesso avviene in questa raccolta, si pensi allo scherzo di sua madre in La suora, all’innocenza puerile di Kennedy a Wexford, a Vatican II, fino alle densità di istante di Dublino: sabato, 23 maggio, 2015 o alle rincorse di luce di Life, nell’incontro tra Gerard Manley Hopkins e il pittore John Butler Yeats.

Le perdite soppresse, relative alla morte dei genitori, come veglie rievocate, l’intima tangibilità della memoria che riecheggia nei dettagli che sembrano ricordare e accogliere il passato, sorvegliano il presente, dove l’indicibilità forata del paesaggio diviene traccia di tempo nitido, estendendosi al ritorno e alla sua meraviglia di chiaroscuri.

 

 

 

[1] Tóibín C., Vinegar Hill. Le poesie, a cura di Philip Morre e Giorgia Sensi, prefazione di Patrick McGuinness, Interno Poesia, Latiano (Br) 2024.

[2] Galaverni R., Il tempo scappa via ma Tóibín gli corre dietro, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 8 settembre 2024.