Trasmutare l’io è un’appartenenza. Farlo brillare, per inseguire le feritoie, i diorami squassati, il superamento dei confini. E poi superarli, attorniarli come scoperta, innanzitutto, poi come abbandono e, quindi, forza, è una materia splendente, o forse più semplicemente, una accesa catalogazione di frammenti e metafore.
Ocean Vuong (1988), nato in Vietnam e trasferitosi negli Stati Uniti nel 1990, che con la sua raccolta di debutto, Cielo notturno con fori d’uscita (edita ora in Italia, per La Nave di Teseo, a cura di Moira Egan e Damiano Abeni, con la prefazione di Micheal Cunningham), ha vinto il Whiting Award, oltre al PushCart Prize e altri svariati premi, protende tale trasmutazione non solo alle tensioni linguistiche e lessicali ma anche alla dimora postuma dello spazio della parola che diventa, pertanto, eterogenea, e plurale e carnale, allo stesso tempo, come afferma Michael Cunningham:
«È raro leggere un giovane poeta — è raro leggere un qualsiasi poeta, da questo punto di vista — che sappia combinare in modo tanto potente il personale con il politico; il cui lavoro sia così spudoratamente autobiografico e al contempo capace di affermare che il politico è il personale, che non c’è nessuna linea netta a separare le nostre vite private dal mondo in cui le viviamo. È raro, anche, leggere un poeta il cui lavoro sia così schiettamente e spontaneamente sessuale. L’elemento erotico è spesso effimero, se non del tutto assente, in poesia; i poeti sembrano suggerire che le nostre numerose esperienze di stupore e paura, solo per citarne due, siano in qualche modo separate dai nostri sentimenti più ferali, carnali».
Ma se da un lato, le accensioni della sua biografia (l’anno in un campo per rifugiati e poi l’emigrazione ad Hartford, in Connecticut, con la famiglia) condensano un abisso inquieto, facendo luce sulla ferita e sulla lacerazione della guerra del Vietnam, come inizio e trauma lessicale, prima ancora che esistenziale, dall’altro
«Figure complesse, sfollate dalla guerra, aleggiano sul libro: un padre assente e tormentato e una madre molto amata. L’intima voce lirica di Vuong, le sue immagini nitide e la sua omosessualità costruiscono una storia familiare di perdite e una precaria identità transnazionale tipica dell’immigrato».
Così questo cielo notturno e stellato si riempie di fori (« […] le stelle / sono sempre state quello che sapevamo / fossero: i fori d’uscita / di ogni / parola che ha fatto cilecca»), di speranza e di uscita, come rappresentazione simbolica di ciò che alle guerre è postumo, e in cui la cavità del corpo, che avvolge l’anima e ci racchiude, rappresenta il luogo dell’io e la sua risposta.
La pioggia trafitta, le corde delle chitarre sfilacciate, la voce e il nome inginocchiato, la vita che muove la sua libertà corporea, la figura paterna («la lama diventa Te»), amata e assente, odiata e nascosta nel vento in frantumi, è dolorosamente racchiusa in una fermata di respiri, scalcati da una pagina («C’è un ragazzo che si inginocchia / in una casa con tutte le porte sfondate a calci / sull’estate. C’è una domanda che gli corrode / la lingua. Un pugnale che tocca / il Tuo dito conficcato nella gola»), mani vuote e occhi persi nel sapore di cenere («Ti muovi in me come pioggia / udita / da un altro paese. / Sì, tu hai un paese. / Un giorno lo troveranno / mentre cercano navi naufragate…»), nell’America dei lampioni che «gli baluginavano le labbra».
Scrive in Soglia:
«Nel corpo, dove tutto ha un prezzo, / ero un accattone. In ginocchio, / guardavo, dal buco della chiave, non / l’uomo sotto la doccia, ma la pioggia / che lo trafiggeva: corde di chitarra che si sfilacciavano / sulle spalle rigonfie. / cantava, ed è per questo / che la ricordo. Quella voce – / mi ha riempito fin nel profondo / come fosse uno scheletro. Perfino il mio nome / inginocchiato dentro di me, che implora / d’essere risparmiato. / Cantava. Non ricordo altro / Perché nel corpo, dove tutto ha un prezzo, / ero vivo. Non sapevo / che esisteva una ragione migliore. / Che proprio quel mattino mio padre si sarebbe fermato / – oscuro puledro immobile nel diluvio – / & avrebbe ascoltato il mio respiro strozzato / dietro la porta. Non avevo idea che il prezzo / dell’entrare dentro una canzone – fisse smarrire / la via del ritorno. / Così sono entrato. Così ho perso. / Ho perso tutto a occhi / sbarrati».
Oppure quel foro è il tempo delle cattedrali di alberi o è colmo fino all’orlo di acqua di mare. Quello spazio è l’orma vorticosa della parola, infitta e affogata come un sigillo di fiamme impigliate, lampi, fratture e abiti che si fanno petali. La lingua riconosce ciò che precipita:
«A un dito di buio dall’alba, si infila / in un abito da donna rosso. Fiamma impigliata / in uno specchio largo come una bara. Acciaio gli balugina / in fondo alla gola. Un lampo, un asterisco / bianco. Guarda / come danza. La carta da parati blu-livido si sfalda / a fare uncini mentre lui vortica, l’ombra / testa-di-cavallo proiettata sulla famiglia / nei ritratti, vetro che si spacca sotto / la sua macchia. Si muove come qualsiasi / altra frattura, rivelando le porte più brevi. L’abito / attorno gli si fa petalo come la buccia / di una mela. Come se le loro spade / non si stessero affilando / dentro di lui. Questo cavallo con la faccia / d’uomo. Questa pancia piena di lame / & di bruti. Come se danzare potesse impedire al cuore / del suo assassino di battergli / sotto al costato. Con che facilità un ragazzo in abito / da donna rosso come occhi chiusi / svanisce / coperto dal suono del proprio / galoppo. E come correrà il cavallo finchè non romperà / in clima – in vento. Lo vedranno / limpidissimo / quando la città brucerà […]».
L’alternata voce di stupore, visione, bruciore è il dettaglio che scompone l’immagine del reale (Aubade con città in fiamme): una contesa tra i numi e gli abissi, e anche un simposio di ciò che non voce non ha e l’indicibile, l’azzurro crollato, la lettera che si porge dalle mani della prigione.
Le immagini di Vuong hanno una vertigine inquieta, depositano detriti che vengono raccolti come sposi e vedovi. Il particolare è la singolarità del mondo esposto, in cui linguaggio e significato si mescolano, dando vita a una traslazione, un compendio, un tatuaggio e un aperto scandaglio fino al fondo dell’essere.
La ferita non è mai il lamento. Bensì la condizione, lo sversamento, la corda sciolta delle caviglie degli amanti, le sillabe dell’amore che lacerano ogni chiusa, fino alla mano minuta che insegna «ad abbracciare un uomo come la sete»: «Fa’ che ogni fiume invidi / le nostre bocche. Fa’ che ogni bacio percuota il corpo / come una stagione. Dove le mele tuonano / sulla terra con zoccoli rossi & io sono tuo figlio».
La nervatura della poesia non può prescindere da questo taglio infinito, dalla ruggine frantumata, dall’orlo del mondo, dalle braci delle città umane e interiori che fumano in lontananza.
Il frammento sventrato, la polvere, il brandello scoprono la loro minuzia solo negli orizzonti velati, nell’acqua sul baratro, nei lillà, nelle velature piene come sillabe sbriciolate.
Quel margine è, in Vuong, la cifra della sua apertura di aria, il bacio sbriciolato all’aria pregando, il ricordo sottopelle. L’appartenenza è un capofitto di madre che ha reso carne il proprio figlio:
«Non lo sai? L’amore di una madre / non sente l’orgoglio / come il fuoco / non sente le grida / di ciò che brucia. Figlio mio, / anche domani / possiederai l’oggi. Non lo sai? / Ci sono uomini che palpano seni / come fossero / la calotta di un teschio. Uomini / che trasportano sogni / al di là dei monti, con i morti / in spalla. / Ma solo una madre può camminare / con il peso / di un secondo cuore che pulsa. / Sciocco ragazzo. / Ti puoi perdere in tutti i libri / ma non dimenticherai mai te stesso / come dio dimentica / le proprie mani. / Quando ti chiederanno / di dove sei, / di’ che il tuo nome / è stato reso carne dalla bocca sdentata / di una donna di guerra. / Che tu non sei nato / ma hai gattonato, a capofitto – / dentro la fame dei cani. Figlio mio, di’ loro / che il corpo è una lama che più taglia più / si affila».
Lo stesso figlio sceglie di vivere. Come nel Giorno del Ringraziamento 2006, in cui la mano nella città, il sangue diluito, il tepore ampio come una cicatrice sul collo, le lacrime di una vedova diventano incisioni che richiamano il bordo dell’umano, fattosi centro inesplicabile, come l’ «occhio / che restituisce lo sguardo dall’altro lato – / e aspetta».
Il disegno della parola trancia il dolore e vivifica ogni spasimo sessuale e carnale che schiude la fame inguaribile. Così come il riparo dell’amore da ogni aria graffiata, in un pensiero ancora caldo nel cielo azzurro di quel paese, non è esilio, nonostante la morte, la migrazione e la lingua, e rimane nel suo splendore di sogno, desiderio e speranza:
«La tenerezza / una cosa a cui venire costretto / con la forza. Lucciole appese / in un’aria di zaffiro. […] Il corpo è stato creato morbido / per preservarci / dalla solitudine. / L’hai detto tu / come se l’auto si stesse riempiendo / di acqua di fiume. […] Non ho mai voluto / la carne. / Il modo in cui non manca mai / di mancare / così esattamente. / Ma cosa accadrebbe se io stesso / sotto la pagina della pelle / penetrassi / & trovassi il cuore. / Non grande come un pugno / ma come la tua bocca che si apre / all’ampiezza / di Gerusalemme. In quel caso? / Amare un altro / uomo – è non lasciarsi / alle spalle nessuno / che mi perdoni. / Non voglio lasciarmi / alle spalle nessuno. / Preservare / & essere preservato. / Come un campo trasforma / i suoi segreti / in peonie. / Come la luce / preserva la propria ombra / ingoiandola».
La forma della parola nasconde il segreto di una rovina nascosta in ogni gola, l’effimero che pronuncia il suo gioco esile, il breve tempo dell’ambra appuntita. Resta un giaciglio di bellezza in ogni detrito consumato, in ogni colpo del padre alla madre, in ogni orgasmo, così vicino alla resa («Di’ resa. Di’ alabastro. Coltello a scatto. / Caprifoglio. Verga d’oro. Di’ autunno. / Di’autunno nonostante il verde / nei tuoi occhi. Bellezza nonostante / la luce del giorno. Di’ che uccideresti per questo. Alba infrangibile / che ti monta in gola. / il mio dimenarmi sotto di te / come un passero scioccato / dal precipitare»), dentro ogni singhiozzo scomparso:
«Dimmi che è stato per la fame / & non per nulla di meno. Perché fame significa / dare al corpo ciò che sa / che non potrà preservare. Che questa luce d’ambra / appuntita dalla lama di un’altra guerra / è tutto ciò che mi inchioda la mano al tuo petto. / Tu, che affoghi / tra le mie braccia – / resta. / Tu, che sospingi il tuo corpo / nel fiume / solo per essere lasciato con te stesso – / resta».
Davanti ai campi bidimensionali di Rothko, Vuong sdipana, senza mediazioni, l’11 settembre, alla luce di queste macchie di colore, come accade Senza titolo (blu, verde, marrone): Olio su tela: Mark Rothko: 1952.
È il grande trauma dell’Occidente, caduto come una cesoia tra lo spavento e il sollievo, il dolore e la finestra, il silenzio e il fiore nero caduto nei torsi d’aria:
«La TV ha detto che gli aerei hanno colpito i grattacieli. / & io ho detto Sì perché tu mi hai chiesto / di restare. Forse ci mettiamo in ginocchio a pregare perché dio / ascolta soltanto quando noi siamo così vicini / al demonio. Ti voglio raccontare un sacco di cose. / Che il mio più grande encomio era attraversare / a piedi il Ponte di Brooklyn / & non pensare al volo. Che viviamo come l’acqua: bagnando / una lingua nuova senza saper dire / quello che abbiamo passato. Dicono che il cielo sia più azzurro / ma io so che è nero visto da troppo lontano. / Ti ricorderai sempre cosa stavi facendo / quando il dolore è nella massima intensità. Ci sono un sacco di cose / che ti devo raccontare – ma mi sono guadagnato / soltanto una vita. & non ho preso niente. Niente. Come un paio di denti / alla fine. La TV continuava a ripetere Gli aerei… / Gli aerei… & io aspettavo nella camera / fatta di mani poliglotti in frantumi. Le loro ali pulsavano / nelle quattro pareti sfocate. & tu eri lì. / Tu eri la finestra».
La storia, che si distrugge nel suo farsi e poi si riedifica, chiede di allungarsi sulle cose: il loro limite sfaldato, il loro piccolo volo, le loro radici ultime.
Tutta la poesia di Vuong è radicale e radicata, sebbene il suo io vaghi nel suo respiro che tocca la realtà con una domanda di sogno, di fermi occhi e di metafore mobili.
La mens esplora ogni immersione e scorcio granulato per impastarsi, lacerando il lievito della materia, della lontananza, del presente, con dolcezza e spietatezza.
Curare le ferite di ogni margine, è, per Vuong, il sigillo della sua traiettoria fertile e vivente, che popola di colori la pagina e lascia improvvise invadenze e descrizioni buie e brevi, come le mani.
L’antinomia, la sofferenza, l’idea, le dita sfocate, la schiena, l’inchiostro, l’altrove sono il suo pane spezzato e la sua lingua di esodo straniero e unanime:
«Mia madre un giorno mi disse: “ Tuo padre mi ha obbligato a darti un nome, ma ora lui è in prigione. Possiamo ricominciare dall’inizio, con un nuovo nome. Che ne dici di Ocean?”. Aveva imparato quella parola guardando una mappa nell’ufficio per il sussidio, aveva capito che “ocean” era la vastità tra il Vietnam e l’America, era una connessione. È stata la prima volta in cui ho visto mia madre contenta di aver imparato un significato. Così anni dopo, quando a scuola mi prendevano in giro per il mio nome e lei mi chiese se volevo cambiarlo, dissi di no, era troppo importante per lei».
Il respiro vivente avviene nella distanza da se stessi. In essa si radica un dialogo infinito di luce e destinazione materna. Attraverso un passaggio concesso che dirige la solitudine e la camera di presenze che attraversano come il vento, scrivanie zoppe, muri che diventano pelle, Vuong svela la sua stanza calda e vicina al sangue, così decisa e personale, da essere la durata del tempo tra le braccia accolte:
«Ocean, non avere paura. / La fine della strada è tanto distante / che è già alle nostre spalle. / Niente paura. Tuo padre è tuo padre soltanto / finché uno di voi non se ne dimentica. Come le vertebre / non si ricorderanno le proprie ali / a dispetto di tutte le volte che le tue ginocchia / baceranno il lastrico. Ocean, / mi ascolti? La parte più bella / del tuo corpo è ovunque / si proietta l’ombra di tua madre. / Ecco la casa con l’infanzia / ridotta a un unico cavetto rosso, innesco di mina. / Niente paura. Basta che lo chiami orizzonte / & non lo raggiungerai mai. / Ecco l’oggi. Salta. Ti garantisco non è / una scialuppa di salvataggio. Ecco l’uomo / dalle braccia ampie abbastanza da accogliere / il tuo andartene. & ecco l’attimo / subito dopo spente le luci, in cui ancora scorgi / la flebile fiaccola tra le sue gambe. / E come la usi, ripetutamente, / per ritrovare le tue mani. / Hai chiesto un’altra chance / & ti viene concessa una bocca da cui svuotarti. / Non avere paura, gli spari / sono solo il rumore di gente / che cerca di vivere un po’ più a lungo / & non ce la fa. Ocean. Ocean – / alzati. La parte più bella del tuo corpo / è il luogo verso cui si dirige. & ricorda, / la solitudine è comunque tempo trascorso / insieme al mondo. Ecco / la stanza in cui ci sono tutti. / Gli amici morti che ti / attraversano come il vento / che soffia a tra i sonagli a vento. Ecco una scrivania / con la gamba zoppa & un mattone / per farla durare. Sì, ecco una stanza / così calda & vicina al sangue / che giuro, ti sveglierai – / & crederai che questi muri / siano pelle» (Un giorno amerò Ocean Vuong).
Vuong O., Cielo notturno con fori d’uscita, La Nave di Teseo, Milano 2017, pp. 188, Euro 17.
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