“(…) un piccolo coacervo di riflessioni casualmente sortite in forma versificata, oltre a un certo numero di libere traduzioni da poeti di svariata origine e stile”.
Così scriveva il grande Vittorio Gassman (1922-2000) nella nota introduttiva alla sua raccolta di poesie “Vocalizzi”, oramai introvabile.
“Come nasce la poesia in un grande attore (tra i più grandi che la nostra nazione abbia avuto)?” verrebbe da chiederci, dopo aver letto queste pagine. Il “vizio veniale”, come amava definirlo lo stesso Gassman, si nutre di un peculiare territorio personale d’espressione, di un parto accompagnato dalle sue crisi psicologiche, di una solitudine rischiarata.
Il viaggio tra poeti a lui cari, da Verlaine a Baudelaire, da Mallarmè a Rimbaud e poi Valéry, Quenau, Whitman, Corso, Ferlinghetti, Borges, Neruda, attraverso acrobazie verbali, attraverso una particolare interpretazione, che forse tradisce per certi versi l’originale, ma che riesce sempre ad essere intensità di voce di un uomo che vive il tempo con le sue opache contraddizioni, la sua fierezza, la sua fatica.
In questa cattedrale vivono figure care, amici vicini e assenti, Luciano Lucignani con il quale una “seggiola vuota a un tratto ci fa muti” o Adolfo Celi ritrovato in uno “spicchio si sole”. Affetti ampi e distesi, di figli che “coniugano la mitologia”, dove inseguire un camuffamento di rughe.
Leggendo questi versi non si avverte una fugace quanto estemporanea passione artistica fine a se stessa. Oltre alla solennità della parola, al suo ritmo, all’uso attento della vocalità, alle rime che ancora sentono il fascino della concatenazione, in un secolo di verso libero, si assiste ad uno scenario in cui la maschera del mattatore per eccellenza viene posata in un angolo per dare voce alla solitudine, all’amore, alla “civetteria” lessicale. Il suo germe istrionico pervade le righe, anzi non si attenua, emerge quasi lento tra i rumori e i “singulti” del cuore che balbettano o imitano un discorso. La poesia di Gassman non è fragorosa anzi diviene tacita, silente (“Tacetelo/ questo rumore/ tagliare/ la rumorosa tempesta/ con un’ascia di silenzio”). Tra gli accenti dell’umore, altalenanti proprio come le curvature delle sue forme, si nota un desiderio di luce, un nuovo sillabario: “Eppure tornerà,/ nel glutine, nel catrame delle ore,/ a emergere una lesena/ di stremato colore,/ lo schizzo acrilico con cui il pittore riscatti/ la creta, il sacco, la pomice, / e prometta un ultimo giro/ di riverberi apparentati alla luce”).
Il bisogno di amore, di custodia degli occhi e della carne, il desiderio di protezione hanno il loro vertice in Canzonetta per Diletta, segreta compagna di vita nella vita, nascondiglio di tenerezza “ciglio ribelle al suo arco”, luogo e ruolo dove poter esprimere liberamente la propria umanità, senza riserve, senza palcoscenico: “Guidarmi a casa, permettermi/ di rinunziare, dimettermi, slacciarmi la cintura;/ Prendere pure una papera/Che resti in famiglia, una sola/Un’idea mi consola/Nessuno ascolterà./Così fra noi due finalmente sarà chiarita ogni cosa:/Non solo che sei più graziosa/Ma proprio più intelligente). E poi il dialogo con Dio, una sorta di tête-à-tête che lo ha accompagnato fino alla morte, fatto di spazi da decifrare, di bisogno di avvenimento, di parole a perdifiato in un linguaggio perfetto: “Perdonami di tutto./So che a volte cancelli/a qualche fortunato/il debito che tutti con te abbiamo./la bolletta falla pagare/a me, ma dimmi almeno/che non farai tagliare/la mia linea: ti prego,/quando echeggerà/quell’ultimo e doloroso/squillo. Dio- per Dio!-/non staccare: rispondimi!”
Il mattatore si congeda così, nella solitudine, e va via lasciandosi andare nell’ombra, in silhouette, chiedendoci solo di accompagnarlo per rimanere vivi.