Leggere Dino Buzzati (1906-1972 ) oggi è come sentirne i passi in un’aria musicale perfetta. Sembra un disturbo, invece è qualcosa che ci permette di addentrarci in ciò che è universale, magmatico, ineluttabile.
Sembra esserci una sorta di ripiegamento, in quelle pagine perfette, lineari, guidate da occhi che sanno vedere, testimonianze di una capacità di sguardo che non si improvvisa. Ma l’ombra di un desiderio di attesa apre un varco grande in cui inserire la storia dell’uomo, di ogni uomo che attende la “grande occasione”.
“Il deserto dei tartari”, terzo romanzo di Buzzati, è esempio di rappresentazione di un’attesa sospesa ne “il battito del tempo”, quella del giovane tenente Giovanni Drogo (come scriveva Luca Doninelli: “Nessuno, credo, ha mai descritto la condizione del giornalista nel modo in cui lo ha fatto Buzzati: nobilitandola cioè per quella sua umanissima povertà, che è l’attesa. Attesa di una notizia migliore, o perlomeno del momento in cui si tornerà a casa. E così, ecco come vanno le cose: in attesa dei grandi eventi, la vita si consuma nella routine . È lo scandalo dell’uomo moderno”) , quella di un nemico che sembra non sopraggiungere mai, in una sorta di muraglia chiusa e impenetrabile, la fortezza Bastiani, avamposto isolato nel deserto, tanto simile alla sua redazione del Corriere, dove si consuma la sua esistenza, senza che l’avvenimento sperato accada. È un luogo in cui l’uomo si scopre costituito di domande di senso inestirpabili, che lo proiettano verso un «oltre» necessario e irraggiungibile: «E dietro, che cosa c’era? Di là di quell’inospitale edificio, di là dei merli, delle casematte, delle polveriere che chiudevano la vista, quale mondo si apriva? Come appariva il regno del Nord, il pietroso deserto per dove nessuno era mai passato?». Nell’ultimo capitolo il romanzo fa luce sulla profondità di questo tempo di attesa, sotto l’«azzurro intenso» di un cielo reso luminoso dalla luce del tramonto, mentre il solo protagonista in una locanda avvertiva «nascere in sé una estrema speranza… Osava immaginare che tutto non fosse finito; perché forse era davvero giunta la sua grande occasione, la definitiva battaglia che poteva pagare l’intera vita», e dove «Dio saprà perdonare» per valicare «con piede fermo il limite dell’ombra», «contro l’immenso portale nero… aprendo il passo alla luce» e infine «dà ancora uno sguardo fuori dalla finestra, una brevissima occhiata, per l’ultima sua porzione di stelle. Poi nel buio, benché nessuno lo veda, sorride».
Montale ha scritto di Buzzati che: <<gli oggetti erano uno sbarramento, un ostacolo, una porta che un giorno avrebbe potuto aprirsi… Dino, naturaliter cristiano (anche se pagano come tutti gli artisti), poteva quasi tranquillamente ostinarsi a bussare>>. La sua letteratura sopraggiunge da un mondo lontano, fatta di volti particolari ma sempre reali, storia di anime nella aggrappata ricerca di un amore di vicoli insolenti, di una visione di totalità, anche patologica se vogliamo, di una esistenza scandagliata nel territorio straniero dell’altro, nella grande “boutique del mistero”.
Alcuni hanno spesso posto l’accento su quel “disperato scetticismo”, altri sull’ “ansia religiosa” o sull’ “esistenzialismo cristiano aperto alla speranza”, con cui il nostro autore contempla il volgere sterminato del tempo verso la morte. Proprio come in quel racconto in cui un vecchio musicofilo riesce finalmente a registrare il capolavoro musicale tanto agognato alla radio, che sembra essere stato messo su nastro in modo perfetto. E invece, nel momento in cui decide di riascoltarlo, si accorge che si sente un flap flap che riproduce il suono delle pantofole di sua moglie, scatenando in lui un’ira bieca. Accade però che successivamente la moglie si ammala e muore, lasciandolo solo. Aveva da sempre sottovalutato, in preda ai balbettii della quotidianità, l’importanza di questa donna e, ora che non c’è più, la bellezza e il Senso della loro unione risulta palese. Torna al registratore e riascolta il brano, desideroso e bisognoso di quella familiarità di suono che risulta eco della vivezza nitida della sua compagna, in un suono stampato e immortale. Il rapporto tra segno e significato si inverte, la donna è associata alla presenza che la contraddistingue, ma ancora una volta la realtà irrompe in modo decisivo e l’uomo, solo, ne segue il Dito.