«La storia dei miei versi non può che coincidere con la mia storia umana. Rifiuto e considero vietate […] le esercitazioni (sia pure civilissime), le sperimentazioni che furbescamente o ingenuamente tentano l’impossibile colpo di dadi. […]. Quella del poeta è secondo me una pura e semplice condizione umana, la poesia appartiene alla nostra più intima biologia, condiziona e sviluppa il nostro destino, è un modo come un altro di essere uomini. Di là dagli schemi mentali, dalle velleità, dalle frigide volizioni e dalle sapienti masturbazioni, la poesia nasce sotto il segno apparente dell’imprevisto. […] Poesia è dunque per me avventura, viaggio, scoperta, vitale reperimento degli idoli della tribù, tentata decifrazione del mondo, cattura e possesso di frammenti del mondo, nuda denuncia del mondo in cui si è uomini, cruento atto esistenziale».
Basterebbe questo intenso dialogo con Giacinto Spagnoletti, per percorrere il tratto poetico di Bartolo Cattafi (1922-1979), poeta tra i più importanti del Novecento.
Lontano dalla poesia come prodotto legato alla sperimentazione stilistica, ma indizio per decifrare il mondo, nel segno dell’imprevisto, dell’inatteso e in ciò che non è deducibile, la sua parola si insinua «Tra cosa e cosa / due righe buttate là sulla pagina / ma chi si prende la briga / di passarci il dito / di farsi morsicare da due aspidi / nell’estate pietrosa?» (Due righe).
Se Carlo Bo afferma che «La poesia è per Cattafi il solo, l’unico modo di stare al mondo», i suoi depositi testuali si affermano sul problema della conoscenza, dell’interpretazione del mondo e dell’esistenza, mossi dal dettaglio labirintico e protesi, in modo netto e definitivo, alla luminaria dell’essenziale.
Nasce a Barcellona (Messina) il 6 luglio 1922. Si laurea in Giurisprudenza, ma non eserciterà mai la professione, spostando i suoi interessi sulla lettura dei grandi romanzieri, come Melville, Conrad, Hemingway e Faulkner, e sulla lettura di poeti come Machado, Lorca, Auden e gli ermetici.
Nel 1943 viene chiamato alle armi, ma la dura vita militare gli procura un crollo fisico e nervoso che lo porterà al ricovero a Bologna, dove riesce a ottenere la licenza e a concludere la sua vicenda militare. In questi anni inizia a emergere il fuoco della vocazione poetica: «Cominciai a scrivere versi non so come, ero sempre in preda a non so quale ebbrezza, stordito da sensazioni troppo acute, dolci. Le mille cose che quella snervante primavera mi poneva erano magicamente gravide di significati, ricche di acutissime, deliziose radiazioni. Come in una seconda infanzia, cominciai a enumerare le cose amate, a compitare in versi un ingenuo inventario del mondo». La poesia nasce in una siderea nominazione di sapori, suoni, odori, e si esprime in una densa trasfigurazione e folgorazione: «Me ne andavo nella colorita campagna nutrendomi di sapori, odori, aromi, immagini; la morte non era un elemento innaturale in quel quadro; era come un pesce fiorito, un falco sulla gallina, una lucertola che guizza attraverso la viottola». Nel 1947 si trasferisce a Milano, lavorando come pubblicitario, ma si muoverà spesso tra il capoluogo lombardo e la Sicilia, compiendo anche numerosi viaggi all’estero. Il nomadismo sarà il cardine del suo spostamento poetico che si impregnerà della frequentazione dei caffè letterari lombardi, rimanendo in un fulcro estraneo.
L’auto-antologia Le mosche del meriggio (1958), che succede a Nel centro della mano (1951) e Partenza da Greenwich (1955), raccoglie la produzione poetica degli anni 1945-1955 e si concentra sulla nuda descrizione oggettuale, il cui correlativo oggettivo permette allo sguardo di ampliarsi in una forte densità metaforica: «Domani apriremo l’arancia / il mondo arancia nel verde domani, / si poserà la nuvola lontana / con le zampe guardinghe di colomba / sopra il tetto di tegole vecchie / sopra il tempo piovuto rugginoso». La peculiarità cromatica fornisce alla scena una prospettiva ampia e ulteriore, come l’agave invitata a viaggiare «assieme all’anima / fredda dei gabbiani / assieme al cuore fecondo al pesce pregno / che arricchisce la rete più lontana / e la mano lentissima di Dio / venuta in volo da un nido di nebbia». Il rinvio alla mano di Dio che abita in una zona ignota determina l’accostamento sgomento del poeta, in un viaggio universale nel dato mnemonico e autobiografico, come il pianeta nella sua orbita, come gli insetti che volano nell’afa a mezz’aria.
Scrive Paolo Maccari: «[…] Cattafi ha probabilmente iniziato a piegare il suo iniziale vitalismo verso una percezione della realtà in cui si insinua il sospetto che i grandi spazi, le spirali analogiche, l’aspirazione perenne verso un altrove, siano colorati tranelli che intralciano più che favorire l’affannosa ricerca di qualche verità». L’ultima lirica della raccolta indizia un approdo, un varco: «Qui nel cerchio già chiuso / nel monotono giro delle cose / […] / può darsi nasca un’acqua ed una nebbia / […] / Sarà prossimo il centro: / là s’appunta il nero / occhio, la nostra / perla di pece sempre in fiamme / serrata tra le ciglia».
Nel 1964, dopo la dolorosa perdita della madre, una delusione amorosa e difficoltà economiche, Cattafi pubblica L’osso, l’anima (Premio Chianciano). Il vortice centripeto e abissale del dramma, cui «nessuna scialuppa può salvare / chi sempre girò in tondo / nel vortice», tende all’aspetto conoscitivo del dilemma dell’io, concentrato su se stesso e desideroso di raggiungere la chiarezza, l’«osso». Pertanto, occorre una luce che illumini «secchi e squadrati / i nostri metri di mondo». L’invocazione alla luminosità, per «scoprire senza selci l’altro fuoco», ha a che fare con la profondità del dramma senza prisma e invita a cercare «la porta d’uscita per salvare / l’unica cosa amata,a lungo amata, / trafugandola al mondo, alla chiarezza». La luce dell’altro fuoco spinge l’ansia conoscitiva all’osso e all’anima del reale, come intimo sgorgo di preghiera: «[…] Tu sai il perché d’un labbro / che tremando si sporge più dell’altro. / Accoglimi. / assieme ai pesci sguazzanti all’ingrasso / nell’acqua del Giordano / nella tua conca di marmo, / ai due cani /ringhiosi clandestini / che baruffano nell’angolo più buio / della tua navata».
Commenta Luigi Baldacci: «Non c’è cosa nella sua poesia […]che non nasca dalla parola: dalla parola fatta arma impropria, oggetto contundente, non conseguenza logica. Non dirà mai che “la vita è male”; ma è quel martellamento, quell’elisione sistematica e brutale di ogni passaggio o nesso che alla fine se ne convince». L’attenzione alla dimensione concreta e orizzontale della sua piena poetica si concentra sul referto del dato visivo e pittorico (L’aria secca del fuoco (1972)), come sostiene Ada De Alessandri.
I fichi d’inverno, le lumache, le olive, le api, lo scarabeo divengono canti di una natura intensa dall’interno effimero e chiare lettere della condizione umana, protesi nei loro frammenti erranti. Come la sua anima che sente l’inquietudine e il peso di una finitudine, affrontata da una sorta di miracolo al contrario (decisivo in tal senso è il viaggio a Lourdes come barelliere nel 1971), in cui l’uomo dalle gambe muscolose chiede di essere storpiato, per inginocchiarsi e cadere ai piedi di Maria. Il lavoro della grazia inizia il suo passo: «Esitò sul filo della soglia / entrò e fece il giro della stanza / si posò in un angolo d’ombra / benché disvelandosi di poco / si vide c’era / di struggente bellezza». L’anima e il cuore, feriti nello sgomento di buio, cercano affrancazione dalla solitudine, «in cerca d’un legno dolce / d’un albero a braccia aperte».
La poesia diventa graffio, incisione, segno fisico (La discesa al trono (1975)) come «le combustioni di Burri o delle blasfeme solitudini di Bacon. Figurativa e insieme informale, ha un’evidenza che investe l’occhio, più che il dominio della parola scritta [...]. Cattafi, quando è più vero, cioè quasi sempre, tralascia, nel suo linguaggio, ogni relazione analogica; donde la sua perfino sconcertante chiarezza, che riflette il suo bisogno di comunicare: sia pure l’ineluttabilità della tragedia» (L. Baldacci) e incede verso una dimensione cosmica incisiva, senza limiti. La conoscenza della realtà si afferma nelle evocazioni, nelle similitudini che legano le presenze delle cose più disparate e ergono il significato all’altezza umana, come la trapunta, la pelle di un tonno, il rombo di un aquilone. L’attesa di una forma di rivelazione di «chi guarda da una fessura», poiché «La nostra piaga è un sonno profondo / notte vischiosa in noi rinchiusa / che egli turba splendendo / insinuandosi / vivo argento del mondo / nel cesto delle lumache», è il suo cozzare di gusci, l’interiorità che grida e geme, l’azione di Lui che si insinua nell’argento del mondo, in una meta-realtà che si fa attesa prorompente. L’allodola ottobrina è l’ultimo volume che Cattafi ha visto stampato, esce nel 1979 l’anno della sua morte. Una maggiore coscienza luminosa delle cose «che scoppiano tra i piedi come rose» o si scuciono, cedono, vivono ancora di una traiettoria ultima e interiore della fede che scoglie «tutto in un filo / il cammino allungato».
Il filo dell’esistenza è disteso, si rende chiaro il disegno, la vita non si arrende al labirinto, all’inettitudine dei rami secchi, ma lotta, costretta al concreto, per aspettare Colui che fa risalire «a colpi d’ala», per vincere ad occhi chiusi «la vertigine il vuoto la mia storia». Chiromanzia d’inverno (1979) è la sua raccolta postuma, faticosa, lieta, subliminare, in bilico «con un mezzo sapore di eternità», ma proteso e arreso all’oltre che si incide, pressa e a cui aprirsi, finalmente, nell’accoglienza libera: «Nudo sono innanzi a Te / un filo di paglia / mi può trafiggere».