Il gesto di Irene Ester Leo (1980) nasce nel vivente che rivela e nasconde, richiama il litorale di spazio e di visione, dove lo sguardo, lo specchio, il dono, il ricordo, la presenza, il mistero, lo svelamento arrivano, per sproporzione e sovrabbondanza, come afferma Davide Rondoni, nella nota di copertina di Fuoco bianco[1], appena edito da Capire Edizioni,
«al candore, al fuoco bianco, al candido. Ci arriva per violenza e trattenimento, per fuga ed eccedenza e per misura. Arrivare deve alla luce che, lo sappiamo, arde nel Salento interiore e in quello manifesto di una terra e di una poetessa che in quella accensione si interpretano a vicenda. La voce di Irene Ester Leo, esagerata, ovvero eccedente l’azione propria che ci si attende dalla poesia e dunque, proprio per questo, poesia che provoca e chiama, si è da subito qualificata come potente e infera».
E questa voce, nutrita dalle linfe della vertigine novecentesca, tende a:
«a una fusione con gli elementi della natura, sospinta dalle varie esperienze, dalle diverse vie dell’amore, nutrito parimenti da furori e malinconie, non è dunque un panismo, e nemmeno un facile estetismo. Lo segna un senso di creaturalità, dovuto anche all’esperienza della maternità, una ricerca dell’Origine, di quel fuoco bianco che si fa uno con la rosa, come vide Thomas Stearns Eliot».
E questo turbamento di suono riguarda la natura conoscitiva dell’uomo («Il petto trattiene le tue promesse / e il mio fuoco bianco in un passo cantonale», la creazione, come atto d’amore che diviene il privilegio di una mediazione tra Essere e Altro («L’amore muta le convinzioni, / ho un’unica religione adesso / disegnare per te fiori gialli. / C’è una strana malinconia / nella pioggia di aprile. / Sento il mio nome tra l’acqua / incastrarsi e vestirsi nuovo. / E la linea delle nuvole / contigua alla bocca, / aprirsi in una luce felice»), l’ordine della realtà e il suo enigma, il sogno e l’immagine.
In essa risiede la forza di Leo, che è forza tra relazione e costruzione, dizionario di materia e simbolo, terra nuda e aurora di dono e destino possibile, come se lo sguardo accompagnasse le cose nel loro divenire, cercandone la struttura e il senso («Gli occhi rompono piano la visione, / la vita nei suoi pezzi ha radici, / e le radici nascono e fanno nuovi alberi / e la primavera verdi tremori. / La marcia dei risvegli / ha suono e gambe umane, / è dolce nei tuoi sguardi. / Chi non si è perso non possiede / la curva del cielo»):
«Sentire alle tue spalle il mare che scorre, / il pensiero è una scheggia. / Ho crepuscolo / e brezza oltre la pelle. / Ho sognato le strade / che non ho percorso. / L’inversione è naturale / e il sole di mezzogiorno una spirale, / poi all’ennesimo incrocio / il miraggio si è fatto azzurro. / E non so se sia apparso / prima di te l’azzurro / o le onde di ogni estate, / ma hai accesso gigli oggi / lungo le forze dei miei anni».
In Leo, il senso della trasparenza appartiene al processo di albedo. È una vocazione alla trasparenza, al discioglimento della materia. Alba e rinascita, purificazione e liquido vitale che non tende subitaneamente a una liberazione, ma a una innervazione della corporeità, per rendere dono al candore, alla dichiarazione e alla manifestazione dell’essere delle cose, per dire l’essere[2], come scrisse Josè Ortega y Gasset: «Tra le costole e la voce / una finestra aspetta, / il paesaggio dell’amore ci stringe, / è chiarore di mare e terra. / Tu costi la nebbia dalle cose sperate, / sul ligustro un cappello a righe / trafugato alla nostalgia / al treno e alle sue rincorse ore».
O come un’irrorazione irraggiante, l’immagine diventa, ancora, rappresentazione e crea una lunga costellazione di segni e sensi: «L’armatura limpida è follia. / Chiamami giorno, / sono risorta sulle pupille del fuoco. / Ogni caduta è un filo d’argento / dalla linea del collo all’orizzonte dei passi. / Resto, meta e invincibile raggio».
Irene Ester Leo, nel suo fuoco bianco, che non significa solo lucentezza, nomina e raffigura una prospettiva di sguardo del mondo che tende allo svelamento per farsi desiderio, che cerca un altro ambito verso cui anelare, partendo da una scrittura scolpita e da una perdurante intensificazione del reale. L’immagine vuole il nostro stupore, la nostalgia, la mormorazione del sangue, il risveglio di ciò che ami e che rimane:
«Per amore ogni cosa si flette. / Chi ama lascia accadere. / Sento la disciplina della comprensione, / chiudo lo sguardo per avvicinarti. / Chiedo al tempo / perché incunea le dita / perché spezza i capelli / e non ci porta dove sento il gelo di gennaio, / dove sono viva e resisto nelle guerre / sulle margherite in mezzo alle pietre. / La mia volontà / sopra le realtà che cammini / si insinua tra te e i demoni / delle cose perse. / Potessi rovesciare in un colpo di fucile / la superficie dei pensieri, / adagiarla sul mare e farne quiete / ascoltarci poi, rialzarci senza meraviglia, / coprirti le spalle bambine. / Non sono la sperata / somiglio alla nebbia prima di ogni est, / il sole la sottrae e il verde trema nello stelo. / Non ricorderai al risveglio l’orma calda / l’odore del caffè nella stazione, / e queste parole abissali. / Ma sollevando lo sguardo / saprai».
Ecco rimanere. La parola di Irene Ester Leo rimane e permane. Lo fa attraverso un’architettura di nitidezza lontana, dal desiderio supremo («La foglia / desidera l’autunno supremo»), dall’orizzonte, alle ombre rialzate e agli argini slegati del cuore: «Tra scapola e mare, / il pensiero / nasce di spalle. / Cresce tra il mùrico slancio. / Un’elica azzurra, / un balzo di stelle. / Pensarti è averti, / parte del corpo / eppur solco netto, / ramo di nespolo / che ama il suo frutto».
Rimane, innanzitutto, in questa radice che accade, nell’immagine pura del sogno, nella memoria che inizia e finisce e nella veglia dove rimane il tempo («Sconfinato come il fuoco, / di chi è il fiato che accarezzi? / Tutto è febbrile / ma nulla accade due volte / se esistono i tuoi occhi»). Che è sempre tempo di amore lucido, creatore, originario e, infine, materno.
La dolcezza della parola, allora, è uno sfrondamento ultimo, porta al fondo, al limo delle acque, per diventare forza dell’io che attua il suo itinerario luminescente e doloroso assieme, dove il colore rappresenta l’inarcamento e la condizione insondabile di ogni percezione che muore e rinasce, di ogni sostanza e presenza del reale. I particolari della scrittura appartengono all’ontologia, suggellandone ogni assenza e poi lambendone l’elegante sensualità, come un assioma e un lampo in atto di Eros, e divenire preludio perenne di «bambini feroci che scavano / con le mani dell’estate»: «Ti ho sottratto al mondo. / Ora c’è nel tempo presente / tra l’undicesimo e dodicesimo rintocco / un’orma. / Ti ho levato dalla sedia e dal tavolo / oltre i tuoi studi oscuri./ Un’ora che ho piegato. / Un’ora in cui ho sussurrato / per mangiarti come chicchi d’uva, / e bere il cielo».
Il compito dell’immagine, dunque, che si raffronta con l’altro-da-sé, che congiunge terreno ed aereo, colore puro e suo opposto negato, lettera all’amaranto del cielo e, infine carezza di fiamma.
La fiamma diventa un destino finale, un’emersione di nascita, il segno degli occhi, il polso caldo della gioia, dove tutto si offre e canta, dove figure care e familiari o il muro graffiato di Claudia Ruggeri appaiono non come passato consumato ma incarnate, quasi sbocciando. La carta taglia ma respira, unica, su Fuoco e Rosa.
Irene Ester Leo, Fuoco Bianco, Capire Edizioni, Forlì 2019, pp. 108, Euro 10.
[1] Leo E.I., Fuoco bianco, a cura di Davide Rondoni, Capire Edizioni, Forlì 2019.
[2] Ortega y Gasset J., Cosa è filosofia?, trad. di Armando Sevignano, Marinetti, Genova 1994, p.65.
Irene Ester Leo, Fuoco Bianco, Capire Edizioni, Forlì 2019.
Ortega y Gasset J., Cosa è filosofia?, trad. di Armando Sevignano, Marinetti, Genova 1994.