Guardare all’opera del grande scrittore Giorgio Bassani (1916-2000) significa viaggiare in un’ atmosfera di transito di un’epoca o, per meglio dire, di era in transito.
Il ricordo, il privato eletto a strategia elettiva di narrazione, la nostalgia come espressione primitiva dell’essere, sono intarsiati in una comunità, quella benestante israelitica di Ferrara, che diviene luogo e scenario mentali, talmente fervidi da diventare storia e materiale narrabile, collettivo, se vogliamo, di una memoria pienamente attaccata ai personaggi.
Le principali tappe narrative rappresentano un itinerario che si nutre dello sguardo sulla diversità e sulla discriminazione: “La passeggiata prima di cena” (1953), l’anziana maestra socialista de “Gli ultimi anni di Clelia Trotti” (1956), l’omosessualità esclusa e suicida di Athos Fadigati ne “Gli occhiali d’oro” (1958), l’auto-rinuncia della famiglia o forse di un’epopea de “Il giardino dei Finzi-Contini”(1962), fino all’esclusione in “Dietro la porta” (1964), “L’airone” (1968) e “L’odore del fieno” (1972).
Esiste una legge naturale nella vicenda umana, perennemente irrealizzata ma connaturata alla sua mortalità, al suo destino di rimpianto di un tempo, ingiallito di ricordi e di situazioni che i personaggi vivono nella loro vicissitudine quotidiana.
Il critico Giulio Manacorda insisteva nella maestria eccezionale di Bassani “ (…) nel descrivere quegli ambienti con mezzi apparentemente naturalistici, ma che hanno invece la capacità di trasportarli subito in una vaga atmosfera di incantesimo, di sortilegio”.
Le storie amare e dolenti sono nutrite da un’antropologia culturale di un luogo preciso, dal sapore “omerico”: Ferrara. Una patria più che una città, con le contraddizioni e le emarginazioni violente che ogni città bagnata dalla storia si porta dietro, ma in cui le vicende personali dei personaggi divengono il riflesso acuto e razionale di una Storia universale.
Scrive Pier Paolo Pasolini a proposito: “in Bassani ciò che più interessa è la lucidità con cui si pone a descrivere il mondo secondo un suo interno modo di giudicarlo: modo assolutamente laico, appunto razionale, ma impiantato su una iniziale mai esaurita forza emotiva”.
Il giardino di Giorgio Bassani è quello del suo romanzo principale, “Il giardino dei Finzi Contini” appunto, in cui le sue atmosfere rarefatte e malinconiche sono paesaggi e passaggi d’anima, talvolta abbozzati e tratteggiati, talvolta segnati da una percezione di memoria magica, ma nutriti da quell’ “ansia che il presente diventi subito passato per amarlo e vagheggiarlo a proprio agio”.
La dimensione temporale, iniziata alle porte di Roma, presso le tombe degli antichi Etruschi, per poi dirigersi verso i margini di Ferrara e poi in una sorta di hortus conclusus, fino a raggiungere la casa e l’immagine corporale della protagonista Micol, secondogenita della famiglia, perfetto incastro di un’evoluzione esistenziale che si confronta con la frattura del personaggio-narratore, proteso in una iniziazione simbolica, in un teatro protetto in cui ancora dei ragazzi ebrei potevano esprimere la loro giovinezza.
Un mondo in cui la ricerca dell’io narrante tenta di sfiorare e di toccare l’essenza della morte e della fine, nell’inesprimibilità e nell’incapacità umana di entrare dentro le cose, come quando Micol pensa che l’affettività sia “roba per gente decisa a sopraffarsi a vicenda, uno sport crudele, da praticarsi senza esclusione di colpi e senza mai scomodare, per mitigarlo, bontà d’animo e onestà di propositi”, dentro l’esperienza di “quella parte incantata del nostro passato, che più amiamo, e di cui perciò sentiamo più acutamente il bisogno di liberarci, per poterlo continuare a vivere e per essere realmente ciò che siamo”, come ebbe a scrivere Alberto Asor Rosa. La lirica di Bassani è dolente ed esclusa, struggente e inghiottita dagli strani meccanismi della storia, dove l’amore è tacito, discreto, inespresso, riscoperto e vissuto dentro un orizzonte che inghiotte in maniera definitiva, che con improvvisa lentezza e drammaticità e senza esclusione di colpi rinchiuderà quella diversità nell’angustia tragica dei “senza nome” dell’Olocausto.