Nel 1962 comparvero per la prima volta le poesie di Gregory Corso (1930-2001), uno dei poeti della cosiddetta beat generation. Nome-indice totalizzante, abusato, traslato o persino corrotto da una nuova semantica e un nuovo utilizzo.
Spesso Corso ha abitato quel movimento materico di sostanza e di pensiero, estremo e soave, con durezza di sfogo e percezione destinata di intenti.
Assieme a Kerouac, Ferlinghetti, Borroughs, Ginsberg, tanto per citarne alcuni, è stato espressione di un lirismo di bordo e di slancio, di rabbia, di malinconia e di punta aguzza di stilo.
Scrive Gianni Menarini, che ha curato un’importante edizione delle opere poetiche di Corso per l’editore Guanda,: Ma in genere direi che Corso sembra veramente scrivere tutto d’impulso, guidato solo dall’emozione e dall’estro, aspettandosi che tutto quanto è prima impressione, cioè prima stesura, venga considerato per ciò stesso <<genuino>>.
Anche Corso stesso descriverà così questa sua tensione: <<Io scrivo d’impulso, così come viene, e scrivere così significa scrivere con onestà, ma significa scrivere quasi in modo goffo. A nessun poeta piace essere goffo. Ma io ho deciso di fregarmene, finchè questo mi permetterà di esprimermi con sincerità. Se nella mente del poeta c’è grazia, ci sarà grazia anche nella sua poesia>>.
La poesia di Gregory Corso è uno sbandamento di linea, così come la sua giovinezza, e il suo iter poetico attraversa i luoghi bui e i precipizi del travaglio della rabbia e dell’impeto.
Sognava la Bellezza di Shelley in quel carcere minorile, il paradiso non artificiale del sentiero del compimento e dello spazio senza cardini: <<A volte l’inferno è un buon posto – se serve a dimostrare che, esistendo quello, deve esistere anche il suo contrario, il paradiso. E cos’era questo paradiso? La poesia.>>.
Questa affermazione non solo è la sintesi di una parabola umana, ma l’appiglio di uno stridore che si orna di grazia, il travaglio di una sensibilità di graffio e di luce.
Il dolore è quella cifra dell’uomo che dà voce alla carne e al campionario dell’anima, che guarda le cose con la freschezza del fascino della visione.
Nella sua traccia poetica c’è il grido dell’America intera, che passa nel bisogno e nella mancanza, nella rabbia e nella difesa, ma c’è anche la Nazione della quotidianità di appigli intimi e battiti. Come un amico sul filo dei sogni: Quanto inseparabile tu e l’America che vedevi eppure/ non era mai lì da vedere; tu e l’America/ come l’albero e la terra, siete la stessa cosa; eppure quanto/ simile a una palma nello stato dell’Oregon… morta/ prima di fiorire, come un orso polare che trotti sul/ Miami / Quanto così ciò che eri o speravi di essere,/ e l’America no, l’America che vedevi eppure/ non potevi vedere. /Così simile eppure dissimile dalla terra da cui nascesti;/ eri piantato sull’America come un albero/senza radici dal fondo piatto>>.
Chi vive sul bordo in solitudine afferma non già l’esigenza di provocazione, ma un’implosione candida e bizzarra.
Purezza d’artista e voce sporcata. <<Povera piccola Bomba che non sarai mai / una canzone eschimese Io ti amo / Voglio mettere un leccalecca / nella tua bocca forcuta / Una parrucca da Ricciolidoro sulla tua zucca pelata / e farti saltellare con me alla Hänsel e Gretel / attraverso lo schermo hollywoodiano>>.
Il margine, l’insignificanza, la solitaria rappresentazione di sé espressi in una musicalità di torrente autonomo, di flusso di suono mentale (“mindfield”) minato dalla violenza degli sketch della mente, del loro racchiuso sillabare, sono il campo di una precisa vis poetica mai retorica. Impulso linguistico di verità e di grido, di soffocamento e di visione roca.
È una ribellione che riempie la pagina, un uomo che dice io senza dissolversi e che, nel magma del moderno, trova impeto e luogo di vita, in pagine sporche di canto d’amore.
Le parole che formano nuvole e l’inchiostro raggruma la pagina, congeda l’accademismo e si fa propulsione di intento, come una zona sconvolta. La poesia è l’appiglio dove poggiare le mani, percorre l’apocalisse delle cose, per raggiungere il tratto essenziale dell’essere.
Ha conosciuto il viaggio, l’alcool, la tossicodipendenza, l’instabilità economica, ma in questo tumulto di esodi e abissi la sua voce riaffiora come un’originale promessa e desiderio, una freccia di spada che cerca la vita nel suo nocciolo, nella sua intimità più vera.
Il suo corpo riposa nel cimitero protestante di Roma, dove hanno dimora anche i suoi amati Keats e Shelley. Scoprì grazie a loro la sopravvivenza della sillaba dell’anima: << Spirito/ è Vita/ Scorre attraverso/ la mia morte/ incessantemente/ come un fiume/che non ha paura/di diventare/mare>>.