Marco, dj radiofonico di provincia, approda con successo a Milano. Dentro di lui, però, si insedia il demone del gioco d’azzardo. Ispirato all’autobiografia “Il giocatore” di Marco Baldini, che è anche cosceneggiatore, questo film è indubbiamente valido da più punti di vista, ma non può dirsi riuscito. L’opera ha diversi punti di forza, primo tra tutti l’attore principale, il bravissimo Elio Germano, che dà un’umanità ispida ma vitale al suo personaggio. Germano ha molto ben interagito con le indicazioni di regia, la cui visione del personaggio è lucida e coerente drammaturgicamente. Vive sempre sospeso su un baratro con allegro e incosciente senso di ineluttabilità e autodistruzione. Sempre survoltato, è come se fosse pervaso e posseduto da una tensione che lo rende sempre grottescamente allegro, mobile, scioccamente ottimista a dispetto dell’evidenza. E’ un drogato perso e cieco. Tali sono coloro che vivono nella dipendenza del gioco. Il suo talento di entertainer gli dà quell’attitudine e spigliatezza nel facile contatto con gli altri, che si trasforma in corda che allunga il cappio al collo dei debiti, specie per la bruttissima gente con cui s’invischia a caccia di soldi. E quest’ambiente appare ben dipinto, incarnato nel personaggio del sordido usuraio, il freddo e feroce Zio Lino. Con pochi ma essenziali tratti è anche rappresentato il giro delle scommesse sulle corse: c’è una macabra ritualità nel gioco, che ha aspetti collettivi, ma di finta socialità. In realtà ognuno “combatte” per se stesso e le proprie ansie, strafregandosene degli altri. Anzi, se può, lo imbroglia pure. Lo sguardo molto critico della cassiera, Laura Chiatti, su questa comunità è felicemente eloquente e lucidamente espressivo. Adatto anche il modo con cui è disegnato l’ambiente familiare, soprattutto il padre che gli è vicino nell’unica scena di autentica sofferenza espressa. E c’è anche un gioco collettivo di citazioni di commedia alla Virzì. Lo stesso ambiente della prima radio che l’accoglie, un po’ provincialotta, ma ricca d’energia e creatività, è reso con vivacità. Ma da tutto questo propizio insieme non scaturisce un film unitario. Il giovane regista napoletano, cui si deve il felice esordio di “Pater familias” (03), non è riuscito a individuare un registro narrativo unitario, ma è come se avesse seguito, subendoli, di volta in volta, gli input narrativi prevalenti. Così il film risulta come scollato e privo di un punto di vista dominante, perché non “tradotto” in una continuità narrativa sua propria, anche “traditrice” del libro.