<<Dico che quando ella apparia da parte alcuna, per la speranza de la mirabile salute nullo nemico mi rimanea, anzi mi giungea una fiamma di caritade, la quale mi facea perdonare a chiunque m’avesse offeso>>. Per Dante l’incontro con Beatrice, avvenuto il 1 maggio del 1274, come attesta Boccaccio, durante una festa che il padre di Beatrice, Folco Portinari, aveva organizzato per l’arrivo della primavera, e a cui aveva invitato i <<circostanti vicini>>. È questo il momento decisivo della sua esistenza e della sua concezione della realtà. Senza l’incontro con la Beatrice storica, materiale, non si spiegherebbe la Commedia e non si spiegherebbe ciò che scrisse il grande teologo von Balthasar <<l’educazione al cristianesimo>>, perché sarà Beatrice ad accompagnare Dante in paradiso, luogo della realizzazione del destino.
Tutto l’amore dantesco si muove attraverso una scena tripartita: lui guarda Beatrice e gli occhi di lei sono fissi sul Dio fatto uomo che unicamente può garantire la verità del loro rapporto, perché è lei lo specchio nel quale la totalità del reale si mostra con verità. <<Beatrice tutta ne l’etterne rote/ fissa con li occhi stava; e io in lei/ le luci fissi, di là su rimote>>. Il viaggio del poeta fino a Beatrice ed oltre Beatrice nasce dall’impulso dell’amore verso l’Assoluto. La Divina Commedia, l’opera sognata e promessa, è un arcobaleno gettato tra il poeta e Dio.
Il punto decisivo del rapporto con le cose, è stato l’incontro con lei, come esperienza decisiva della sua vita da cui nasce <<l’unità della persona>>, direbbe Auerbach: “La Beatrice della Vita nova è una persona storica: essa è realmente apparsa a Dante, lo ha realmente salutato, più tardi gli ha realmente negato il saluto, lo ha deriso, ha pianto un’amica perduta e il padre ed è realmente morta […] E bisogna altresì tenere presente che per Dante anche la Beatrice terrestre è fin dal primo giorno della sua apparizione un miracolo mandato dal cielo, un’incarnazione della verità divina. […] Ma un’incarnazione, un miracolo, sono cose che accadono realmente; i miracoli accadono soltanto sulla terra, e l’incarnazione è carne.”. Beatrice per quanto sia amata dal Poeta, non diviene mai un idolo e rappresenta l’inizio della salvezza. Certo è l’amore che nutre per lei a spingerlo ad intraprendere quel viaggio, proprio per cercar di superare il dolore per la sua improvvisa scomparsa, ma Beatrice diventa in corso d’opera anche un segno prezioso che rinvia a qualcosa d’altro, cioè al grande mistero di Dio. Grazie all’amore per Beatrice, Dante riscopre infatti il significato più intimo dell’Amore che è il Verbo di Dio, il quale incarnandosi rivela come tutto ciò che è umano sia rivestito dall’eterno. La bellezza dei suoi occhi, del suo sorriso (<<a la mia donna ne li occhi dimora>>) non fa fermare Dante alla pace dell’estasi, ma lo mette in moto, riaccende il de-siderio, in quanto segno che quanto si desidera esiste, lo apre cioè a tutta la realtà.
Emblematico è il canto VII del paradiso, in cui egli incontra gli spiriti innamorati. Mentre vede farsi più bella Beatrice, veritatis splendor, potremmo dire tomisticamente, rovescia definitivamente l’idea pagana dell’amore come follia, pericolo e stordimento della ragione ma diventa strada alla verità e non una pulsione irrazionale (<<la stella / che ‘l sol vagheggia>>).
È lei che mette in moto il dinamismo della libertà e il criterio morale della vita del poeta non è lo sforzo di adeguarsi a un precetto dottrinale o filosofico, né un imperativo interiore stringente e assolutizzante. Rappresenta la realtà storica attraverso cui egli è liberato dalla selva oscura, nella quale era entrato per non aver seguito la direzione ideale che quel rapporto aveva introdotto nella sua esistenza.
Per comprendere adeguatamente l’esperienza dantesca, bisogna concepire la realtà come segno, come qualcosa che rimanda al significato:<< ïo, che al divino da l’umano,/ a l’etterno tempo dal tempo era venuto>>.
Egli giunge all’eterno attraverso il tempo. Esaltando significato e profondità, l’amore di Dante non perde di concretezza e la figura non viene affatto sminuita nella sua storicità, fisicità, non può, pertanto eliminare il “transitorio”. L’affezione all’effimero è evidente in tutta la poesia medievale: in san Francesco d’Assisi, che compone il Cantico delle creature per affermare come tutto è segno di Dio, dal sole ai topi che invadono la cella, il bene come il male, il firmamento, Chiara; in Jacopone da Todi (“Amore, Amore’, onne cosa clama”), in Giacomo da Lentini (“Io m’agio posto in core a Dio servire, /com’io potesse gire in paradiso” ma “sanza mia donna non vi voria gire”).In questo risiederebbe il vero miracolo della poesia di Dante ossia nella sua visione, intesa quale capacità di concepire la propria vita come una scena, in cui tutti gli elementi sono correlati fra loro e al Tutto. L’amore afferma la legge della realtà, strappa dalla limitatezza della propria misura, libera dalle catene e ci immette nella profondità dell’Essere. L’uomo è chiamato a verificare attraverso la propria esperienza questa soddisfazione profonda, questa corrispondenza tra il cuore e la legge della realtà. Scrive Valerio Capasa: “è proprio la sottolineatura del significato ultimo che mette in rilievo le attrattive particolari (…). Foscolo lo ha capito benissimo, al punto dire che Dante si rivolge al cielo da uomo e non da supplice”, anche oggi l’uomo è chiamato per dirla alla Contini a un’opzione: “ sulla scelta e sull’eternità come fa il Petrarca, o si punta, come Dante, sul tutto, mescolato anche di effimero e contingenza”. All’Amore infatti è deputata la sfida contro il tempo per sconfiggere la morte. Nonostante le difficoltà, esso resta sempre e comunque un’esperienza vitale su cui scommettere.