Il carcere al tempo del coronavirus: paura, problemi e tensioni. La nona puntata del programma televisivo teologico È scesa la sera? La fede si interroga nella tempesta dell’epidemia, prodotto dalla sezione San Tommaso d’Aquino della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, andata in onda il 10 luglio alle ore 19.15, sull’emittente nazionale Padre Pio TV (canale 145), ha avuto come tema di discussione Il mondo dei penitenziari e la prevenzione. Il pericolo della devianza sociale in pandemia. Hanno preso parte al dibattito, oltre agli autori, i teologi Carmine Matarazzo e Michele Giustiniano, don Tonino Palmese, vicario episcopale della Chiesa di Napoli, Maria Luisa Iavarone, sociologa, don Raffaele Grimaldi, ispettore generale delle carceri, Nino Daniele, ex sindaco di Ercolano, già assessore alla Cultura e Turismo del Comune di Napoli, e don Franco Esposito, direttore della Pastorale Carceraria dell’Arcidiocesi di Napoli e cappellano della casa circondariale di Poggioreale. Una puntata speciale, in cui il carcere, luogo alieno alla collettività, ma che invece dovrebbe rappresentare una dimensione in cui la collettività si dovrebbe riconoscere in una fase particolare, quella della espiazione, ha coinvolto gli ospiti presenti e i telespettatori da casa in un vivace dibattito.
Il carcere al tempo del coronavirus – in una situazione già difficile per l’affollamento oltre il numero consentito, si è inserito da un lato l’insorgenza del virus e dall’altro un’informazione martellante, ed il Covid19 ha generato un comprensibile stato di confusione all’interno degli istituti di pena, in particolare in quelli più sovraffollati. L’istituto di pena è per sua natura un luogo in cui le persone stanno molto a contatto, condividendo spazi molto ristretti; è il mondo di dentro, il mondo limitato, ma è in ogni caso vita e relazioni. L’informazione del periodo della pandemia ha portato i detenuti ad andare in fortissima agitazione. Ad aggravare ciò, le istituzioni hanno vietato i colloqui con i parenti: la loro finestra sul mondo esterno, la vita di ogni giorno che penetra le mura del penitenziario veniva bruscamente interrotta. Chiudere i colloqui era inevitabile che fosse un comportamento altamente pericoloso. «Io mi domando – ha detto don Franco Esposito – ma come era possibile che in una situazione di sovraffollamento, in una situazione che già viveva all’estremo, come si poteva non pensare che nel periodo in cui la pandemia arrivava anche alla porte del carcere non ci sarebbero stati dei disordini. Io mi domando chi, persona normale, poteva rimanere tranquillo e sereno sapendo con una notizia lanciata soprattutto dai telegiornali e dai mass media che dal giorno dopo per due mesi non poteva più fare colloqui con i familiari, non poteva più avere un colloquio con un volontario, com’era possibile anche psicologicamente accettare una situazione del genere senza sentire dentro il bisogno di ribellarsi. È chiaro, il disordine, e soprattutto le reazioni violente, non sono ma i giustificabili; soprattutto nell’ambiente carcerario, ma credo che alla base ci sia una situazione pregressa che poi sia sfociata, in questo particolare momento, in atti di ribellione, non giustificabili, ma certamente da prevedere». La cella, quindi, non è stata più un luogo di protezione, ma è stata percepita come un luogo in cui il detenuto si è sentito in pericolo, in balia di un virus e quindi in attesa della morte; lasciato lì a morire in perfetta solitudine e senza cure. Ha percepito il vuoto attorno; il vuoto umano e in una situazione già esplosiva si è determinato quel corto circuito che ha generato le rivolte.
Il perdono responsabile e la giustizia riparativa – Il buio di queste giornate ci ha consegnato una realtà dinnanzi alla quale ciascuno di noi si è trovato profondamente impreparato: la quasi incontrollata diffusione del nuovo COVID-19 ha mobilitato chi vive ogni giorno privato della libertà personale: i detenuti. Il sovraffollamento degli istituti di pena italiani è da anni il cancro di una società civile condensata di nuove pene, nuovi processi, nuovi imputati. Vere e proprie situazioni di concreto pericolo per quell’umanità già costretta a pagare i propri sbagli con il prezzo altissimo dell’inadeguatezza del nostro sistema penitenziario. Cosa fare? «ll carcere non è la soluzione al problema, ma è il problema. Si entra per un reato commesso e si esce per un reato subito – dice don Franco Esposito – Bisogna pensare ad altro al carcere, per fermare l’atto di violenza, per arginare dei problemi momentanei. Il carcere deve durare un certo periodo di tempo, per poi lasciare spazio a delle realtà che veramente possano aiutare la persona a prendere coscienza del male commesso e a iniziare una vita legale da vivere» È questa la cultura della riparazione, che, allontanandosi dal binomio unico tra reato e pena, si sviluppa più complessamente attorno all’idea di una “giustizia senza spada”, che offre al colpevole la possibilità di ricucire la frattura che le sue azioni hanno cagionato alle relazioni sociali, e lo fa attraverso un coinvolgimento attivo della persona offesa. Una sensibilità che dal punto di vista etico incontra un pubblico ristretto. «Esistono i cristiani laici e i laici cristiani, attraverso il perdono responsabile bisogna creare dei ponti tra i familiari e i detenuti. Perdono e riconciliazione: per questa meta c’è bisogno di un incentivo premio. Il familiare della vittima deve rendersi conto che dall’altra parte vi è una persona che va conosciuta e riconosciuta», don Tonino Palmese.
La Chiesa in carcere -– In seguito all’emergenza da Coronavirus, in molte carceri italiane è stato interdetto l’ingresso dei volontari, incontri e celebrazioni eucaristiche sono state annullate e i colloqui con i familiari. Al cappellano, seppur consentito l’ingresso, è stato invitato a desistere nel periodo più delicato, per cui il lavoro del cappellano è stato ancora meno facile. Chiamato a trasmettere speranza a coloro che l’avevano maggiormentesmarrita, a far sentire vicinanza, malgrado la lontananza, a far capire che continuava ad esserci un orizzonte, a curare, in qualche modo, con amore il dolore di chi si è sentito totalmente solo, scartato ed emarginato. «Molti di noi, non potendo entrare nelle carceri, hanno fatto di tutto per essere accolti dalle famiglie, curandone i rapporti, trasmettendo loro i valori della fede e del coraggio», don Raffaele Grimaldi.
Il carcere e la devianza sociale –La devianza risulta strettamente connessa alle dinamiche socio-culturali di riferimento, dal momento che essa si sviluppa parallelamente ai fenomeni di disuguaglianza sociale, per cui le masse e gli individui che occupano posizioni marginali, non accettano passivamente la disuguaglianza e l’emarginazione e reagiscono al processo di stratificazione sociale tramite condotte devianti. L’ambiente carcerario è luogo in cui l’emarginazione, il degrado sociale e il contatto con altri detenuti radicalizzati diventa concausa di devianza che, progressivamente, conducono il detenuto all’accettazione di idee estremiste. La natura repressiva del carcere, se non accompagnata da un adeguato percorso rieducativo teso alla risocializzazione, può generare o incentivare sentimenti di avversione per il sistema, ed il carcere può accentuare la fragilità ed annullare le speranze, generando una condizione di estrema debolezza e pericolo sociale. Per disinnescare questi meccanismi, è fondamentale intervenire in maniera preventiva sui processi culturali, agendo negli stessi contesti in cui la radicalizzazione matura. «Nessuno di noi è senza colpa dei peccati degli altri. La giustizia è una giustizia che non funziona. E l’idea che si possa supplire con la repressione è una illusione. Quando c’è un fallimento di vita, siamo tutti responsabili. Siamo responsabili gli uni degli altri» Nino Daniele.
Certo, è lecito augurarsi che la funzione riparativa, approfondita nella puntata, abbracci ognuno di noi, quando riabbracciarsi sarà possibile, affinché questa parentesi storica possa servire a non ripetere gli errori costituzionali, sociali ed umanitari del passato.