La poesia di Rudyard Kipling (1865-1936) ha conosciuto una sorta di subalternità alla sua produzione narrativa, spesso liquidata secondo un mono-tema, che ne ha permea la struttura: l’imperialismo coloniale e la sua sprezzante deriva.
Ma non esiste un autore che si poggi su una coloritura monotematica, anzi le linee che disegnano la sua opera conoscono la sfumatura autentica dell’uomo, la sua tensione, il suo prorompere.
Ma all’interno di queste declinazioni utopistiche e immaginative, esiste lo sgomento del tratto, il problema della crisi esistenziale, il perdurante senso di precarietà che anima le pagine, il dramma che compone le sue tracce.
Nell’abitare le sponde dell’India e dell’Inghilterra c’è la sua frattura di genesi, il suo ponte illuminato tra due mondi, l’immaginazione che abbraccia terre.
L’acume della sua densità scritta si sofferma, in forma dialogica, su due assi: il realismo, da una parte, e il ripiegamento psicologico dall’altra.
Sono due assi di una struttura che fa del vigore espressivo, dell’attivismo e dell’adesione alla realtà, in tutte le sue complesse diramazioni (storia, costumi e vita sociale), una scena di freschezza espositiva e di fascino.
L’orizzonte di Kipling è la traccia di un’esplorazione d’ambiente (un mondo parallelo anglo-indiano) che partecipa alla trama del mondo e della storia, all’anonimia sottotraccia dei personaggi delle colonie di Sua Maestà, fino al bosco delle caserme, delle guarnigioni e al clima aspro e impossibile del sacrificio e della sofferenza.
In quella anonimia si sperimenta però anche l’indecifrabilità insondabile della bellezza femminile, punto nevralgico e ricolma del rigoglio fascinoso e impressionista delle forme e dei tratti.
Il mondo coloniale, vissuto in tutta la sua deriva e in tutta la sua violenza di leggi, norme e istituzioni, viene guardato da Kipling con l’energia ossimorica della sua scrittura.
Ma è una poesia che si concede il lusso di contaminare stili, di esplorare l’universo gergale e dialettale, ma allo stesso tempo, di rendere asciutta e primordiale la diramazione di intenti: «E il firmamento procede solenne, / e moltitudini di stelle s’alzano/ occhieggiando tra gli archi di ferro – striate dalle traverse del ponte, // finchè non avvertiamo un ronzio/ sui binari e scorgiamo i grandi fanali, / mentre ci raggruppiamo in attesa/ del magnifico espresso del nord».
La Natura vista negli aspetti più primigeni e selvaggi si nutre di una libertà esterna, del branco che inghiotte e comanda, ma ha nello sguardo che si spegne di luci – come declina il titolo di un suo romanzo- di un uomo che lavora alla sua opera, come il pittore Dick, molto vicino all’anima di Kipling, il suo vertice di indagine e il suo tormento: «Come la goccia ritorna all’oceano, così l’Anima mia tornò alla Grande Anima la quale trascende tutte le cose».
È in questa percezione che si coglie la sua dialettica e il suo sgomento.
Scrive Tommaso Pisanti: Non vi sono, ad ogni modo, due Kipling (…) forzerà sempre di più se stesso e la sua decisione di esorcizzazione: fino a volersi pressoché totalmente identificare con le «certezze» della classe dirigente, a voler far sue pienamente, come in un violento strappo di «ottimismo della volontà», le tesi dell’imperialismo civilizzatore, della guerra «necessaria», del «fardello dell’uomo bianco» (un fardello da accettare come duro, inevitabile condizionamento, non come fonte d’esaltazioni: ma che altrettanto inevitabilmente si colora di reazionaria prevaricazione dominatrice).
Lo sguardo pensoso sulle sorti della civiltà in bilico tra riformismo e dominio, lo spirito vitalistico delle battaglie sindacali, l’ambiguità del segreto delle macchine, non celano la pietà che anima la sua pagina, l’ordine e il rigore che vibrano sul suo orizzonte di occhi, in un cantico di onda: «All’alba un mormorio corse tra gli alberi / una lieve increspatura nella cisterna, e nell’aria/ un presagio di prossima frescura- ovunque / una voce profetica nella brezza».
È una poesia di margine che spesso delinea un cerchio aperto dal racconto e sembra insinuare una sensazione di smarrimento, nel fatto che accade o nel destino incombente: «Vidi, mentre l’alba irrompeva, / e io barcollando m’avviavo a riposare, / il colle di Tara tremolar leggermente/ dalla carreggiata fino alla cresta./ Vidi gonfiarsi gli speroni del colle/ Jakko, scuotersi, alzarsi e sprofondare.// Era il terremoto o era il tabacco? / Giorno del Giudizio o Notte di Bevute?».
Come la guerra ad esempio. Egli impegnato sul fronte come corrispondente ne vede il disastro, la violenza, la distruttiva forza degli uomini fuorilegge.
I richiami, gli echi di città, troni e potenze, le risonanze della trama umana vengono disegnati sulla precarietà e sull’obliquità, anzi, ogni espressione poetica non abita il virtuosismo, come se volesse cercarlo o impadronirsene, ma effonde il suo canto sofferto, divenendo forma ricreata e visione di bagliori lontani, pur senza tempra lirico-musicale: «Alba opaca dietro le tamerici, giallo zafferano il cielo – / mentre le donne al villaggio macinano il grano/ e i pappagalli cercano la riva, tra loro annunciandosi/ che è sorto il dì, l’abbagliante giorno d’Oriente».
La sua poesia in azione unisce e armonizza uno sguardo che collega Occidente a Oriente, in una dimensione epocale, in uno spazio di altrove e di auto-coscienza come «pianure ardenti».