Flannery O’Connor (1925-1964) scrive le sue pagine come una folgore d’ombra. Folgore di Resurrezione e di miracolo, aperta e benedetta come una ferita.
A lei interessano le storie, il loro intrecciarsi con la natura. Assomigliano ad un evento di relazioni tra persone ed è lì che avviene il racconto, impastato con il reale: <<La caratteristica principale, e più evidente, della narrativa è quella di affrontare la realtà tramite ciò che si può vedere, sentire, toccare, gustare. È questa una cosa che non si può imparare solo con la testa; va appresa come un’abitudine, come un modo abituale di guardare le cose>>.
Scrivere quindi non è la trasmissione di angoli emotivi, ma un modo di far vedere le cose al lettore, di indicarle, di mostrarle.
Si tratta, pertanto, di contemplare l’esperienza attraverso un realismo, che attraverso le forme del malato, del brutto e del grottesco, percorre il Mistero e la sua Incarnazione, lo insegue per decifrarlo e renderlo percepibile, come indicano i suoi saggi Mistery and Manners.
Flannery O’Connor è stata una scrittrice di visione. Di visione anagogica, tesa a scoprire i livelli e le strutture della realtà in un’immagine, attraverso la partecipazione divina al reale, affinchè ci sia una <<prospettiva ampliata della scena umana>>.
Superando e attraversando la superficie delle cose penetra in <<un’angolazione visiva che comincia a vedere prima di arrivare alla superficie e continua a vedere dopo averla oltrepassata. Comincia a vedere nelle profondità di sé>>.
È questo uno scenario di esperienza che solca il limite e la sua povertà, ma che si ritrova bisognoso di un <<granello di stupidità>>, che rende lo stupore, figlio dell’ascolto e dell’obbedienza alla realtà e al suo mistero.
La letteratura è ciò che permette all’uomo di interpretare il movimento del mondo e cogliere il mistero delle cose, l’abisso dell’ombra e l’allegria santa della luce.
La libertà, la personalità dell’uomo, il mistero incarnato e la realtà sono il campo del dramma tra bene e male, salvezza e perdizione.
In questo percorso l’argomento della sua narrativa <<è l’azione della grazia in un territorio tenuto in gran parte dal diavolo>>.
Il cattolicesimo di Flannery rifugge il dolciastro, il misticismo a basso costo, lo svenevole convivio dello spiritualismo e insegue la fede che permette di “vedere” e scrivere storie: <<Scrivo come scrivo perché sono (non sebbene sia) cattolica (…) perché sono cattolica non posso permettermi di essere meno di un artista>>.
La visione del mondo non può avere traccia disgiunta dal senso del dramma e della fede.
I suoi personaggi non sopportano il peso del manicheismo, ma si connotano nella incompletezza, nella inclinazione alle <<cose peggiori>>, ma sempre redimibili e protesi alla intensa incisività della grazia. Abitano il dramma e il paradosso.
Tutta la realtà è fatta da e di Dio: <<Credo che uno scrittore serio descriva l’azione solo per svelare un mistero. Naturalmente, può essere che lo riveli a se stesso, oltre che al suo pubblico. E può anche essere che non riesca a rivelarlo nemmeno a se stesso, ma credo che non possa fare a meno di sentirne la presenza>>.
Scrive Davide Rondoni: Un artista si qualifica come tale per una caratteristica che non pertiene innanzitutto alla sua intelligenza o alla sua moralità (…) Un artista è generalmente altro da un uomo intelligente e buono. Ma lo è nel senso che costringe chi ne osserva l’opera ad accedere a una scoperta, a una esperienza dell’intelligenza e della morale più profonda di quella che l’opinione comune e l’abitudine gli propongono, e aggiunge Antonio Spadaro: Non c’è niente di più duro o meno sentimentale del realismo cristiano, specie se incarnato nella narrativa, che è l’ arte “più vicina all’uomo nel peccato, nel dolore e nella speranza”.
Il suo territorio, inciso dalla Grazia, non vive delle commemorazioni, dei simboli, ma come i suoi personaggi, è impastato con il dramma prorompente del suo manifestarsi. E l’uomo conosce il rifiuto e poi il fascino del dolore risanato, della vita riavuta.
I suoi racconti, che hanno ispirato il cinema di Houston e di Tarantino, le musiche di Nick Cave e di Springsteen, hanno la potenza misteriosa del movimento della realtà. Tutta la sua scrittura è nel segno del reale e, si badi bene, mai della indeterminatezza e della vaghezza a buon mercato.
La semplicità dell’evento non solo ha un sostrato naturale, ma ha il perentorio e doloroso processo che sconfigge il ‘buon senso’, la dinamica ovvia dell’happy end. Anzi c’è una traccia sospesa che rimanda all’oltre, all’umano ingiudicabile.
Nella sua fattoria Flannery, spesso bollata e ridotta come tutte le definizioni a ‘scrittrice del Sud degli Stati Uniti’, ha guardato allo scenario umano, lo ha visto e mostrato al lettore, attraverso tutte le gradazioni, per portarlo al più profondo significato di Redenzione. In un tutte le espressioni umane, dalla morte all’abbandono, alla violenza, fino al disordine e alla sofferenza, il suo angolo santo di occhi genera esperienza e giudizio in chi legge e in chi scrive. Ai suoi pavoni (ne possedeva quaranta) spetta l’ultima parola incorruttibile di resurrezione.