La poesia di John Keats (1795-1821) è una poesia di movimento inquieto. Poeta della seconda generazione romantica inglese, già memore delle trasmigrazioni liriche di R.Burns e Chatterton, Keats vive nel suo esotismo simbolico e classicheggiante e la sua stessa biografia è leggibile in un ambito di possibile e sperimentabile allegoria. Ed ecco che la poesia, in un quadro sociologico e storico di cambiamenti repentini, diventa esigenza di reazione e rifugio in un luogo immaginario mitigato con la realtà, in un’evasione sensuale e primitiva, non già percorsa da un’attuazione arcadica, ma che è il risultato di una memoria apollinea. A prima vista, quindi, la sua poetica sembra essere figlia della memoria, prima di tutto culturale, e della veggenza che, come un tumulto, si innervano nel presente, in un tempo esterno ma allo stesso tempo interno, di una naturalità sofferta. La poesia è, pertanto, espressione lirica e corale, peso da vivere e da cantare. Ma essa si situa in una equazione infinita di tempo, ancora una volta, tra natura e cultura classica e tra bello naturale e opera d’arte greca. Proprio in questo vi è il dissidio che anima la sua intimità sin dagli anni giovanili, come testimonia Mario Praz: «Il cosiddetto classicismo del Keats risente del gusto dell’epoca della Reggenza, e cioè risultante da una contaminazione di elementi disparati (anche gotici e orientaleggianti), e presenta quindi caratteristiche d’ibridismo, diversamente dal classicismo settecentesco che era divenuto una seconda natura nel linguaggio poetico (…)». Ma la Stimmung di Keats è essenzialmente etica, anzi sembra coincidere direttamente e proporzionalmente con il problema estetico configurato nella Bellezza: immortale, opposta tra realtà e reale, autonomia e appartenenza all’assoluto. E allora la poesia sarà energia disperata, vitalità disperata, immaginazione nel senso più creativo e poetico tout court, in cui il poeta, attraverso la sua creazione, dialoga con l’eternità immutabile. L’io si muove nel principio stratificato della realtà, attraverso la metafora del viaggio e insieme del labirinto, in cui la vita è un “grande palazzo dalle grandi dimore”, in cui noi ci muoviamo dalla “camera spensierata o camera dell’infanzia” verso la “camera del pensiero vergine”. Resta da segnalare come il principio di costruzione dell’Io faccia emergere la cosiddetta negative capability cioè << quando un uomo sia capace di rimanere in incertezze, Misteri, dubbi senza alcun irritante raggiungimento a seguito di fatti e raziocinio>>. È nelle Odi nelle quali il presentimento della morte, l’impassibilità e l’immortalità della Bellezza, vibrano nel canto eterno dell’usignolo, nell’armonia dell’Urna. Poesia della vertigine dunque. <<Una cosa di bellezza è una gioia eterna:/ Aumenta la sua grazia e mai/ Trapasserà nel nulla…>>. È attraverso l’estasi poetica e artistica che l’uomo si afferma in una duplicità viva, in cui la fuga dal mondo è essa stessa affermazione del mondo. La stessa epifania originale del trinomio natura-divinità-poesia dei circuiti del poeta è fame di un’umanità che non anela a placarsi e nel luogo della poesia trova permanenza e non transizione accessoria. Keats rimane in una struttura profondamente metafisica, in cui anche nella morte di ogni visione, peraltro comunque irrimediabilmente destinata a perire, il reale si riconduce alla vita e alla sua origine: la realtà dell’arte è nel suo eterno presente, in quanto portatrice di un messaggio estetico e destinataria del sacrificio della nostra temporalità umana. Chiude il nostro discorso l’aria casta del paesaggio keatsiano, autunnale, nel quale si risolve la coscienza dell’Io nella oggettività della visione. L’enorme ricchezza sensoriale affettiva, in prima istanza, visiva, sospende la sua anima nel tempo, in tempo in cui anche l’amore (si pensi al suo tormento per Fanny Brawne) è assorbito e sparito nel canto: <<Tu canterai ancora: ma per le mie orecchie inutili, /Per me, una semplice zolla davanti al tuo requiem altissimo…>>.