La poesia di Juan Gelman (1930), uno dei più grandi poeti argentini e sudamericani, abita le stanze delle soglie e delle soste.
L’esilio, il rifugio la disperazione e l’orrore sono l’ansia di un anelito, il battito implacabile che incontra il mondo.
La sua vita è stata un tumulto di terrore e magnificenza: le battaglie politiche, i suoi spostamenti, la morte del figlio e infine la gloria poetica con onorificenze (tra cui il Cervantes) e viaggi di parola attraverso i continenti.
Ciò che di più colpisce nella sua poesia è il raggrumarsi di istanze che elevano la vetta dell’umano alla gioia e alla pietà.
La poesia non è un luogo privilegiato, ma è l’interstizio che guarda il mondo e il suo movimento. Le sue immagini hanno la nitidezza della visione: vita, pietà, bambini, amore colto nel rigoglio sensuale e nel battito acceso.
Ha raccolto la saggezza e la profondità dura e solenne di chi lo ha preceduto: Auden, Cavalcanti, Rilke, Catullo, Kavafis, le asprezze di Celan, per farne coro di voce unica e densa.
La poesia civile, che pure attraversa le sue pagine, non ha il piagnisteo come meta, ma solca la dignità umana e la fa risplendere, scandaglia gli abissi per riemergere, conosce l’esilio per riappropriarsi dei luoghi.
Il poeta e l’esilio sono volti di una stessa facciata di esistenza, in cui l’origine della privazione trova riparo nella relazione con le cose: i volti, la donna amata, il desiderio più intimo. Si è uomini per questo.
L’amore di Juan Gelman ha la dolcezza della profondità dell’anima.
Eterno come i baci, i sussulti, la materia di carne che balugina, in un anelito bellissimo e semplice: <<La tua voce è muta, perché l’ombra / dai cani morsicata / è la nostra stessa ombra e vive / appaiata ai baci, / copre la perdita di grinze e / di ricordi che verranno. La notte / non è una sorella coricata/ con le mani vuote. / È la tua veste / che cade a terra e si ritira/ nel suo profumo.>>
In questo movimento perenne l’odore è un dialogo di sponde di <<acque che s’incrociano/ controtempo>>, di voci di scialli.
Poeta di fulgore anche nell’abisso, attraverso quella <<luce che non smette di consumare ciò che vede>>, scopre la purità del brandello, anche in un soffio che risplende oscuro: <<è una luce con orizzonti che nessuno vede,/ come fulgori lungo un tratto qualsiasi del viaggio>>.
La vita prosegue il suo tempio di innalzamenti e, attraverso la materia poetica, rinasce e ritorna per <<leggere le regole della paura / in una città illuminata dal sole>>.
Oppure proprio attraverso quel Catullo che conosce le leggi della distanza e <<scrive sempre la stessa poesia e guarda/ l’universo che rischiara/ la soglia della sua casa>>.
Abitare la soglia significa sopravvivere sul confine, accompagnare le parole in una strana corrente che scava dentro lo stupore e il silenzio decifrato.
L’infanzia, vista nell’immagine onirica, ha i contorni di una luce interiore che sommuove il tempo, come i campi di lino, come una porta che si chiude.
Un viaggio dentro la soglia che si dipana nelle descrizioni e nelle rievocazioni di frangenti e spazi di attimo, di qualcosa che <<soffre illegibilmente>>, con un filo mendicante che lega le ombre.
La bambina che <<alza un dito in mezzo alla sabbia>> ha la nitidezza del dolore, ma è uno spazio vergine, in cui il suono dell’infanzia si fa mappa nota di universo intero.
Il magma delle parole non scompone il mondo, ma nuota nel ventre e risplende, entra nelle mani e lo sbilancia, attraverso l’amore, il passo breve delle cose, la clausura dell’abisso.
Solo chi ha conosciuto il dramma (nel caso di Gelman la dittatura e le perdite familiari) può farci avvertire il sostrato del tessuto umano. Nel luogo poetico l’espressione è lotta, memoria o meglio “ombra di memoria”.
Scrive Miguel Dalmaroni che la poesia di Juan Gelman: si apre in uno spazio in cui il soggettivo si collega inevitabilmente e direttamente con il politico. Ma è attraverso la forma della parola che il mondo si rinnova, in quello spazio la nostra identità e l’appartenenza alla terra d’origine sono primitive espressioni di una antica genesi, di una lingua materna d’affetti che l’esilio ha espatriato, sradicato e ferito, come un corpo: <<Questo cantare quasi fiume che/ si dilata quando/ la finestra si affaccia a te/ con alte sere in mano e/ sa di te più di me / quella/ spirale che se ne va/ di tu in tu e capisce/ il sillabario della perdita/sul rovescio dell’essere>>.
La sua poesia percorre il suo sillabario dell’essere e la sua anima di confine tra il qui e l’oltre, in un profumo di soglia.