«Cristina Campo / tu stavi sulla terra / e appartenevi a un altro mondo;/ e da quel mondo, l’altro, /venivi ogni momento/ ed eri qui, nel nostro, circonfusa. / recavi a noi la violenza / e la naturalezza/ di quel che importa: la misura/ di quel che può valere e non valere». Con questi versi il poeta Remo Fasani descrive l’anima di Vittoria Guerrini, meglio conosciuta come Cristina Campo (1923-1977), poetessa, scrittrice e fine traduttrice di Katherine Mansfiel, John Donne o William Carlos Williams, spesso nascosta dietro il fittizio di pseudonimi, di identità celate, di non-autoaffermazione che però univa la sua appartenenza a Cristo e alle messi, il suo allontanamento da ogni profanazione e scempio della purezza: “così io debbo amare questa lama fredda, che venne un giorno a incastrarsi fra i cardini della mia anima per mantenerla bene aperta…”. La lettura di Simone Weil e l’incontro con Elèmire Zolla, che divenne il suo compagno, fu come lo spartiacque di un baluginìo, di un’illuminazione improvvisa, della fiamma fissa della meditazione, come scrisse Mario Luzi e soprattutto del pensiero poetante dell’attenzione (“attenzione fervente” come la definì Massimo Cacciari), “il solo cammino verso l’inesprimibile, la sola strada al mistero”: “Troppe cose hanno accolto le tue palpebre / l’attenzione t’ha consumato le ciglia” e ancora “Torno sola / tra due sonni laggiù, vedo l’ulivo / roseo sugli orci colmi d’acqua e luna / del lungo inverno. Torno a te che geli / nella mia lieve tunica di fuoco”. Nonostante l’emarginazione della critica alla sua opera e anche la poca produzione rimastaci (“Scrisse poco, e le piacerebbe aver scritto meno”) curata da Margherita Pieracci Harwell, la poesia di Cristina Campo è un moto fulmineo, una piena di fiume verso il Vero, verso l’azione del Vero. Dietro i saggi Gli Imperdonabili, la raccolta La tigre assenza, silloge già apparsa nel 1969 su “Conoscenza religiosa”e il purtroppo dimenticato testo pubblicato nel 1989 da Scheiwiller Lettere a un amico lontano, vi è la rilevanza di un tempo segreto in cui la parola diviene, quasi florenskijanamente, espressione dell’energia e della vita dello spirito e dove l’arte appare trasfigurazione di figura: “Io piango e tremo ed è come se nella stanza quieta, dove tanto vorrei studiare e scrivere, giacesse nell’angolo una tigre battendo la coda, ritmicamente”. La tigre assenza divoratrice è la cifra e vessillo del destino. Solo la bocca abita la preghiera e diviene rimedio per combatterla con lievi mani attraverso memoria e liturgia: “Non resta che protendere la mano / tutta quanta la notte; e divezzare / l’attesa dalla sua consolazione, / seno antico che non ha più latte”. Nel destino, nell’anima divisa e “piagata di infinito” si vive il luogo della parola e della giustizia. L’incontro con la parola nelle sue forme evocatrici e suggeritrici e la lotta contro ogni profanazione del linguaggio nell’ era della bellezza in fuga, sono incontro con il silenzio, unico spazio dell’unione tra sacro e poetico: “La parola sacra interrompe il consueto fluire del quotidiano per far irrompere nella coscienza la presenza del divino, costituisce una rottura ontologica del livello in cui abitualmente viviamo e ci porta verso una dimensione differente”. La parola trasparente, l’istante misterioso e insondabile del suo pronunciamento e il suo fermo orizzonte dell’immagine, / all’incrocio del tempo e dell’eterno”. La via alla Bellezza, “a doppia lama”, velata e misteriosa ma necessariamente teologica, per Cristina Campo è un itinerario per ripensare il mondo:”O mio giacinto dalla verde foglia / nella pianura fumida di pianto”. Ed ecco che la liturgia, simbiosi tra sacro e bello, riverbera lo splendore dell’espressione lirica, del richiamo all’unità indivisibile dell’uomo, alla sua riscrittura nell’umano (“Più si conosce la poesia più ci si accorge ch’essa è figlia della liturgia, la quale è il suo archetipo”). Scrive Emanuele Trevi: “Tutta la scrittura di Cristina Campo (come quella di Simone Weil) può essere considerata come una commossa meditazione sul visibile come porta d’accesso al numinoso, quell’Invisibile che ci si rivela nei tremendi barbagli della bellezza (…) Essa viene consegnata alle figure definitive della Bellezza, delicata e micidiale, e del Maestro e Signore che la trasfonde nel visibile per regalarci una pallida parvenza del suo volto, “centro celato nel cerchio”. Dentro questo moto di figure e deserti, di accensioni e riverberi, di occhi, di simboli e misteri, la poesia diventa salmodia di pagine, di continua rinascita di forme, visione inafferrabile dello spazio vitale in limine mortis:” Ora rivoglio bianche tutte le mie lettere, / inaudito il mio nome, la mia grazia richiusa; /ch’io mi distenda sul quadrante dei giorni, /riconduca la vita a mezzanotte.