La poesia di Tony Harrison (1937) assorbe l’icona di un rischio. Essere una membrana politica oppure vibrare nella sottigliezza dolce e dura della realtà.
Nato a Leeds, da famiglia di umili origini, ha sentito addosso il disagio della working class. Diviso, come scrive Massimo Bacigalupo, «fra la cultura progressista radicale della sua maturità e il conservatorismo dei genitori piccoloborghesi», la sua opera, pur calandosi nella tradizione letteraria inglese, «spezza le barriere fra generi e fra letteratura alta e vernacolo, fra elegia miltoniana e filastrocca da avanspettacolo, ed è pertanto ben inserita nel plurilinguismo postmoderno della fine del secolo. La poesia di Harrison è rabbiosa e sferzante, non di rado affronta i grandi temi dei dibattiti televisivi: la bomba atomica, la guerra, l’industria degli armamenti, il colonialismo, est contro ovest. […] La materia bruciante è calata nello stampo smagato della rima baciata […]».
La durezza estrema ed antifrastica del suo scacco poetico non si impernia nell’ideologia, bensì abbraccia vis tragica e umorismo, attraverso una sorta di antilirismo e di beffa, di polemica e di cultura linguistica. La realtà apre il suo coperchio, incendia la paura delle nostre trame, provoca la commozione della memoria recuperata o perduta. È nel verso oppositivo che egli fa breccia, nell conflitto tra sesso e morte, nell’opposizione drammatica e disperata di un rischio e, meglio ancora, del volo di un rischio.
Il conflitto tra la cultura borghese e aristocratica e proletariato compone il suo linguaggio, che non si risolve in una sterile opposizione o in un baratro ideologico, ma, al contrario, recupera forme antiche (elegia, sonetto) per impregnarsi del gergo proletario (come quello degli abitanti del distretto minerario di Leeds, i Loiners) e rendergli spasmo di vita.
In V. la sua dura poetica graffiante rafforza la sua trama oppositiva come un frammento. Quando egli si reca al cimitero per rendere omaggio ai suoi genitori e, d’un tratto, si ritrova dinanzi alle lapidi imbrattate dalle scritte volgari dei tifosi del Leeds United, questo diviene «il pretesto per meditare sulle conseguenze dell’ultimo sgretolamento sociale inglese (dovuto innanzitutto alla disoccupazione), sulla violenza che genera violenza, sulla cesura comunicativa fra classi, squadre, generazioni, sessi, linguaggi» (Nicola D’Ugo) : «Questo cimitero sul ciglio di Beeston Hill / è quello dove è probabile che io finisca / se c’è ancora posto sotto le rose e i narcisi / con cui papà nobilitò la tomba di famiglia. / Se le ceneri vedono, allora potrei contemplare / i posti dove imparai il latino e il greco / e che abbandonai, il campo dove il Leeds United gioca / ma delude i tifosi tutte le settimane, / per cui questi perdono ogni senso di dignità, / e tornando a casa per la scorciatoia del cimitero / riaffermano la gloria della loro squadra, / spruzzando parole sulle lapidi, cotti di birra», e ancora «I V sono tutti i contro della vita, / da LEEDS contro DERBY, comunista contro fascista, / nonché (lo imparai a caro prezzo) moglie contro marito / bianco contro nero, / destra contro sinistra, / classe contro classe con il risentimento di prima, / la violenza senza fine di NOI e LORO, personificata nel 1984, / da MacGregor dei padroni del carbone e l’Unione Minatori, / Indù-sikh, anima-corpo, cuore-mente, / est-ovest, maschio-femmina… il terreno / del conflitto dei simboli è l’uomo, rassegnato / a attendersi dal futuro ciò che non gli chiede il passato».
Il confronto con la realtà, dove «la gente piange, ma il caldo secca le lacrime. Le facce avvampano di fiamme, birra, sollievo / e un tale senso di festa sulla strada / ancora mi dice gioia, pur se il dolore pesa», trasforma l’indicibile in uno scandalo espressivo senza requie, non censura, ma si dibatte nella narrazione su diversi piani mettendo in fila, come sostiene Bacigalupo, «gli elementi che lo colpiscono: le tombe, le oscenità, la miniera su cui il cimitero pericola, i palazzi di Leeds visti dall’alto, i ragazzini che giocano a pallone vicino al camposanto cantando la marcia nuziale del Lohengrin… E ognuno di questi elementi si presta senza forzatura a sviluppi metaforici non preordinati, molto ricchi, in una struttura di tipo sinfonico dove i temi ritornano arricchiti di nuove implicazioni».
È la chiusura teatrale del gesto verbale che in Harrison acquista vigoria, quando egli attraversa la realtà, con la dialettica, con la prospettiva collettiva dell’esperienza e con il sacro fuoco del suo nucleo affettivo.
Quasi che il dramma esperienziale debba dettare le sue battute minute di satira ed eloquenza nel tono buffonesco (come Allotments che allude alla v di Dig for Victory), nella trama filmica (il soldato iracheno mandato a morire e lo sberleffo della presunta immortalità dei suoi nemici), nelle rotture e sfrangiamenti del tempo mancato e avvinto di una antica grammatica sulle atrocità, infine, nell’universale epitalamio prosciugato: «Cantavamo «stormo, sciame, gregge, armento» / fra la sconfitta nazista e giapponese. / Una coppia di dodo aveva anch’essa un suo nome / che divenne, nel corso della vita dell’ultimo, obsoleto? / Nomi collettivi, di solito uccelli o bestie. / Ghetto e gulag non erano parole correnti. / La fauna della nostra infanzia scemò / mentre nascevano nuovi collettivi umani. / I gatti fanno un «clowder», i leoni un «pride», / ma non c’è soccorso in inglese, prima o dopo, / per un [riempire lo spazio] di genocidi / o più di un [mettere una croce] fungo atomico».
La necessità di riappropriarsi della lingua diviene epigrafe della propria specificità e della propria estrazione, della propria peculiare dinamica affettiva e della confessione di una commozione franta che unisce stagioni e dettagli, come briciole di glace, una clessidra o un materiale di sfondo ombrato «che tiene qualcosa davanti agli occhi», divenendo irripetibile: «Ogni sera quando abbasso le tendine / le stelle sembrano gocce della buccia notturna; / il sole, frutto spelato della notte, spreme i raggi / con cui macchia, stria, poi allaga il mondo di giorni: / giorni, quando la stessa luce mi faceva piangere, / giorni, passati come le notti in un sonno pesante, / giorni a Newcastle presso il letto di mia figlia / pensando che era meglio se uno dei due moriva, / giorni a Leeds, giorni grigi, il primo vestito scuro, / le corone di mia madre vicino ai frutti di Natale, / i giorni come questo a Micanopy. Giorni!» (Un kumquat per John Keats).
La trincea di Harrison ha una implacabile coltre selvaggia: «L’opera di Harrison è una poesia di fatti (e fatterelli), come rivelano i quadernoni in cui egli ritaglia e incolla e collaziona ogni tipo di materiale relativo a un progetto, film, commedia, poesia, abbozzandovi di fianco qualche verso». È dentro questa opera di collazione che emerge la nitidezza ripercorsa del suo verso che è insieme prosa orante e monologo, scrittura recitativa e sostrato anomalo di paesaggio che annota, registra, decifra, come in Doncaster, dove un pasto, consumato alla stazione in un sabato sera d’inverno, diviene assonanza annotativa fatta di abiti, ragazze fuori dai pub e dalla discoteca, la bandiera britannica che garotta l’asta, i vagoni che portano carbone.
Le sbavature di Harrison sono file di attimi smagati che collegano istanti, nei quali gli uomini popolano la scena in tutta la loro indaffarata esistenza e il dramma del vivente, lo stupore accigliato rappresentano il suo bottino infinito, la sua tregua calda: «Stasera qualche ragazzino si rallegrerà / della bici avuta in regalo dal papà, / che per essa sfidò l’artiglieria e il fuoco serbo / anche se è ammaccata e ha le gomme a terra. / E fra le migliaia in fuga verso nord, un altro / avrà perso ogni gioia, e vicino alla madre / vedendo l’incubo dei cicli in cui si aggirano / rimpiangerà la musica di un mandolino».
Qual è l’esito di questa stuporosa e ludica coltre espressiva? La fusione di un linguaggio, innanzitutto. Come un ritaglio giocoliere, egli suggestiona e inventa, indica i suoi accenni con sincretica partecipazione e prometeico dono: «All’alba accogliamo il sole nuotando / da monti blu-porpora / mentre la flotta delle spadare / rientra in porto e si ormeggia / con a bordo la cena per oggi / in fresche trance sanguinanti».
È il suo dispaccio di trincea che colora la cupezza e il laido spessore di alcune esperienze: «Nelle pozze dei crateri il ragazzo vede / i pezzetti e le schegge delle Pleaidi, / riflesse nei profondi buchi neri della morte / lasciati nell’asfalto dalle granate serbe. / La sagoma scura del giovane accompagna l’amica / a dividere un singolo caffè in una bottega, / fino al coprifuoco, e lui le tiene la mano / dietro ai sacchi di sabbia già usati per il grano».
Eschilo, l’immagine di un teschio con corona di alloro e moneta, Sinibaldo Scorza diramano la sua tela microcalligrafica, dipanano l’impossibilità di decifrare il dolore compiutamente, inseguono la “fruttilità” delle tinte e delle fragranze dense del mondo, fino ai giochi sonori e gli scorci che dileggiano (L’in-ceppo del laureato), rigirano pareti di pensiero (Avanzi), inscenano cartoline trasparenti (Amazzonia) nella coda di spiagge e negli anfiteatri ritrovati.
L’incandescenza creativa della parola si impasta alla materia sonora come solco deflagrato. La realtà, con i suoi nessi simbolici, si ammanta del suo vertiginoso spessore, con la sua ferita e con il suo conflitto.
Ed ecco che il vuoto non rappresenta soltanto lo spazio sgombro e violento, ma anche l’apice di generazioni, stagioni e confini tra i vivi e i morti, e attraverso forme antiche, come l’epigramma o la breve scheggia dei versi, la poesia sublima gli spazi lasciati dalle generazioni e dal tempo privato e collettivo, come il giaciglio inesploso delle torri del World Trade Center. Il cappello bruno siberiano del padre è passato alla figlia, ma lui non c’è più: «Indossano cappelli di pelliccia che avevo portato da Leningrado / nei giorni della Guerra Fredda prima della caduta del Muro. / Quello di Papà, malgrado i compagni lo schernissero, era molto portato / Nella sua tribuna del Leeds United il cranio pelato / era tenuto al calduccio da un orso bruno siberiano. / Mia figlia ha ora il suo cappello, e Papà è morto da tempo».
Commenta Marco Bini: «L’oggetto-cappello sintetizza con la propria presenza durevole nel tempo una delle svolte storiche e collettive più traumatiche degli ultimi anni del Novecento, e allo stesso tempo è la garanzia dei legami fra gli uomini e della loro continuità nonostante le insidie del tempo. Non dimentichiamo che anche il poeta sta invecchiando […], e l’uomo pieno di pietas collettiva deve rivolgere un po’ dell’attenzione riservata al mondo e ai suoi guai verso sé stesso e tirare le somme di un cammino che ha già percorso molte tappe, ripensarsi come uomo, come figlio, come padre a sua volta di fronte al fluire degli anni».
È il dramma dell’umano vivente ciò che interessa ad Harrison, l’etimologia umana che sopravvive alla disumanizzazione, alla crudeltà del più forte e all’ingranaggio stritolante della nuova età: «Andai a vedere i crateri prodotti dalle esplosioni / come prima cosa al mattino e noi ragazzi / raccogliemmo zolle di granata dell’incursione / per provare di aver visto un po’ di guerra ai padri assenti. / C’era uno sbirro lì che non gli dava noia / che i crateri fossero usati così presto dai ragazzi per gioco / o a caccia di granate che ci aiutò a trovare» (Granata).
Il senso di pietas, nella sua poesia, si specifica nel riempimento, nella ricolma aspettualità, che unisce e invoca pienezze, decretando l’annullamento e la fine del conflitto, approfondendo il coagulo dialogico del testo, come luogo rivoluzionario e margine esploso, e infine, proiettando l’intonazione come simbolo e paradigma.
Scrive Giovanni Greco: «La poesia di Harrison, intesa come impegno globale, è atto totalizzante anche quando mima i procedimenti del minimalismo e dell’arte per l’arte, è multipla e ibrida anche quando si dispone dentro un genere e una tradizione riconosciuti e canonizzati, è provocazione anche quando allude al privato più intimo, alla biografia più inconfessabile, al racconto di fisime e tic di una parabola umana e artistica comunque straordinaria. Questa poliedricità, questa molteplicità […] assumono invece come dato di partenza il classicus, la visione classica del mondo e dell’arte, la lezione del mondo pagano ancora estranea alla codificazione cristiana […] In questo senso, quasi tutta la produzione di Harrison coniuga scientemente cronaca e leggenda, attualità e mito, riconfigurando il presente nei termini del passato, rileggendo la contemporaneità nella sua esuberanza ancestrale, conformando la sua parola sistematicamente a una doppia articolazione di parola tradotta e tradita ma icasticamente attuale […]».
Il segno della sua poesia, pertanto, declina e approfondisce il corpo della pagina, l’oscena lotta carnale delle parole, sigillando il gesto che, come afferma Giovanni Greco, «ritorna ad essere poiesis, classica e non classista, azione dal basso, e non contemplazione dall’alto, voc-azione, sublim-azione, trasfigurazione solenne, laica divin-azione»: «In questa piazza in cui riposo le vecchie ginocchia incerte, / con due vasi di fiori che dallo scorso novembre / hanno lo scopo di descrivere mini campi di caduti, / croci e papaveri intrecciati sono quasi tutti ormai impalliditi / e i nomi a biro nera confuse macchie senza lettere, / sigarette spente come rigidi sudari riesumati dalle tombe, / i ragazzi con piercing si riuniscono a prendere il fresco» (Memoriale).