L’avventura dell’anima di Katherine Mansfield (1888-1923) è una necessità che coinvolge i piani della scrittura, una stimmung che è sperdimento e spaesamento nell’altrove.
Lo è stata la sua vita, o meglio il suo slancio vitale, travolto dal desiderio di un’aspettativa che fosse origine primigenia di un movimento dell’essere, di una piana su cui poggiare le dita del vivere.
Una personalità solitaria che ha fatto della scrittura un paesaggio di visione e di anima accesa: <<…a che cosa serve un pensiero che non derivi dal sentimento?. Devi sentire prima di pensare, devi pensare prima di esprimere te stesso. Non è sufficiente sentire o pensare. La vera espressione è l’insieme delle due cose…deve esserci un’emozione iniziale provata dallo scrittore, poi tutto ciò che vede si imbeve di quella qualità emotiva , solo essa può dare incidenza e sequenza, carattere e ambiente, unità profonda e intima…la forza di una scrittrice dipende dall’essere consapevole delle sue particolari visioni.>>
Nel tumulto della sua età, la conoscenza di Virginia Woolf, con i suoi picchi estremi e assoluti, di Oscar Wilde e D.H Lawrence, sono stati la traccia e l’impronta di un magma irrisolto, di una sponda fertile e brulla allo stesso tempo.
Si è discusso molto sul suo femminismo, e la critica ha avuto nei suoi confronti una messa a fuoco lenta e porovvisoria sulla sua figura, spesso tacciata di acceso femminismo e infuocato vitalismo femminile.
T.S.Eliot ne aveva tracciato le rette in modo netto e interno, con la sua analisi lucida e materica dell’opera di una scrittrice che aveva cercato le radici di un eden perduto e di un paesaggio abissale.
L’emergere del sentimento delle cose in lei ha uno sfondo di amarezza e di esilio, di lacerazione e di tumulto gioioso, un centro di anima e di febbre, dove la ricerca della felicità è una baia di sole, un approdo e un vertice sicuri:<<Ho sempre avuto una furia isterica di vivere, l’isteria è una grande ispiratrice. Detesto le ore grigie, amo i giorni che passano all’orizzonte come nubi di tempesta>>.
Si deve a Maura Del Serra, docente e grande poetessa, la curatela e la traduzione precipua di gran parte delle opere della Mansfield, non per ultime i suoi poemetti e le sue composizioni, che sono come un tendaggio di visione e sogno, esilio e microcosmo femminile.
La meraviglia minima e la traccia che porta alla bellezza felice hanno l’incompiutezza delle domande sull’essere, come la protagonista di “Bliss” (Beatitudine”) Bertha Young che assiste al vestibolo di un’effrazione familiare e affettiva con il marito, ma che in quell’acino di sole trova la sua pienezza: <<Che farci se avete trent’anni e, girando l’angolo della vostra strada, siete sopraffatta all’improvviso da un senso di beatitudine – beatitudine totale!- come se d’un tratto aveste inghiottito un frammento luminoso di quel tardo sole pomeridiano che vi brucia nell’intimo, mitragliandovi di un effluvio di scintille in ogni particella, in ogni dito della mano e del piede?…>>.
La stabilità dello sguardo su un pero argentato, visto dal salotto, (<<anche a quella distanza, Bertha non potè fare a meno di sentire che non aveva neanche un germoglio, neanche un petalo gualcito. Giù in basso, nelle aiole del giardino, i tulipani rosa e gialli, grevi di fiori, parevano curvarsi sul crepuscolo (…) Al vederli, così assorti e veloci, Bertha fu presa da uno strano brivido>>), è il diagramma di una percezione vivida e piena, di una tensione alla pienezza, che poi sarà irrisolta, ma che contiene all’interno un moto di anima, una gioia piena come un <<effluvio minuto di scintille>>.
L’esperienza è ciò che sostiene la sua implacatura espressiva, la sua poetica amara e sognante, che spia gli anfratti vitali per farne materia di tratto e acume profondo.
L’intuizione della Mansfield ha purezza di tono, si ne nutre ciba, si potrebbe dire, e si riempie dei toni di Coleridge e di Cechov, autori di vertice, per lei, e spesso omaggiati, come singolare sponda della sua letteratura.
Si riscopre nel limite della sua visione, anzi proprio nel limite cerca l’aura, il mistero, lo strappo.
Il mondo della Mansfield è un cerchio di voce che atterra sui personaggi, traccia interiore che si riverbera sulla pagina e nell’estasi creativa.
Sibilla Aleramo scrisse di lei: ella seppe gioire del fenomeno dell’esistenza e venerarne il mistero…nessuna è stata più di lei verista e veritiera, testimone irrecusabile dell’umile vita quotidiana, degli aspetti più semplici, concreti. Diceva di qualcuno ‘era un essere reale, ha delle radici’ e di qualche altro ‘ esseri che non sono umani, che non sono mai fanciulli, macchine irreali.
La sua accesa spia trova giustizia nell’altrove, che richiama il suo paesaggio di origine, la Nuova Zelanda, che con i suoi riti e le sue tradizioni ha abitato la sua sorgente espressiva, il suo sussulto di coscienza, il suo lampo manifestato.
Le sue immagini rispecchiano, pertanto, il suo esistere dove la privazione e la malattia hanno intensificato una coltre di sofferenza, ma anche una intensità nuova, sperduta.
Katherine Mansfield abita anche le nostre curve di memoria e di sogno, e nella sua tensione alla felicità scopriamo la nostra povertà lucente.