Lorenzo Crasso nel 1666 nei suoi Elogi di uomini letterati descrive così il poeta Giovan Battista Marino (1569-1625) : <<Fu uomo facile allo sdegno, violento nelle operazioni, mordace ne’motti, faceto nelle conversazioni, mal sofferente delle censure, inclinato alla satira, e da tutti temuto >>. Nonostante questa affabile considerazione di Crasso, è innegabile che la storia letteraria di Giovan Battista Marino sia quanto meno travagliata e senz’altro poco approfondita. Nonostante le caratterizzazioni barocche messe in luce da Wòlfflin, come il passaggio dalla linearità rinascimentale alla pittoricità, dalla superficie alla profondità o dalla chiarezza assoluta al chiaroscuro, il Barocco vive nella nostra prospettiva di un oscuramento e di una sorta di definizione precostituita, mediata forse dall’analisi crociana in senso anti-barocco. Giuseppe Ungaretti è stato tra i primi a riconoscere nella nuova prospettiva artistica e figurativa l’incombenza del vuoto, il senso di vertigine che l’artista tenta di riempire e ciò è reso poeticamente da “un delirio di metafore, un correre dietro alle metafore, e alla metafora delle metafore”.
Da questa linea di confine e dal suo superamento si muove tutta la poetica mariniana. Debitrice di Tasso, senza dubbio, ma che nel gioco di specchi e di instabilità si esprime in una visione esistenziale di fumo, sogno e ombra di orologio che scandisce la fuga del tempo, come scrive Norbert Jonard: “per capire l’anima barocca occorre, ci sembra, fare la sintesi della Bellezza, della Morte e dell’Acqua, cioè della Forma, dell’Evento e della Sostanza. Ciò che li riunisce è il Tempo”.
L’uomo barocco ha sentito appieno il carattere fuggitivo, l’horror vacui, dell’istante e la fragilità di tutto ciò che decorava la vita. Dietro le apparenze si cerca di nascondere il nulla, in un intervallo di tempo in cui l’uomo sperimenta l’assenza di Dio.
Accanto a questa scelta drammatica convive l’opzione, marcatamente edonistica di Marino. Uomo dalla vita irregolare e irrequieta (basti pensare solo alle sue incarcerazioni napoletane) che spesso e volentieri si è servito della sua raffinata abilità letteraria per ingraziarsi le corti dei potenti, dal cardinale Pietro Aldobrandini a Maria de’ Medici (si ricordi solo l’aneddoto in cui il poeta Gaspare Mutola per gelosia gli sparò inseguendolo per le vie di Torino).
La sua esistenza è summa di divertissement (probabile preludio al dannunzianesimo futuro), di sensualità e culto per l’oggetto, come testimoniano La galeria e l’Adone, grande poema ‘antinarrativo’, in cui come scrive Giulio Ferroni: “ questo esuberante repertorio del visibile (…) finisce per comunicarci una sensazione di nausea (…) il cui eccesso nasconde qualcosa di cupo e ossessivo”.
Non un’affettività stilizzata ma passionale, sensuale, una forma di partecipazione al fiato delle cose e la funzione conoscitiva dei sensi, nell’amore avviene il teatro e la scienza del mondo: <<E, con occhio chiuso e l’altro intento speculando ciascuno l’orbe lunare/ scorciar potrà lunghissimi intervalli/ per un picciol cannone e duo cristalli>> e ancora: << Pallidetto mio sole,/
ai tuoi dolci pallori/ perde l’alba vermiglia i suoi colori./ Pallidetta mia morte,/
a le tue dolci e pallide vïole/ la porpora amorosa/ perde, vinta, la rosa>>, << A l’aura il crin, ch’a l’auro il pregio ha tolto / sorgendo il mio bel sol del su’oriente/ per doppiar forse luce al dì nascente, / da’ suoi biondi volumi avea disciolto>>.
Sembrerebbe pertanto che la poetica mariniana si adagi su due concetti chiave: il “diletto” e la “meraviglia”, come testimonia la celebrità del suo distico, ricordato in ogni storia letteraria:” <<È del poeta il fin la meraviglia (parlo de l’eccellente, non del goffo):/ chi non sa far stupir vada a la striglia>>. E’ una meraviglia prodotta dall’ acutezza, dalla combinazione virtuosistica, dall’affabulazione linguistica, dal modellamento dell’opera sull’encomio e dalla perizia retorica giocata sull’antitesi e sull’ossimoro, in ciò che lo stesso Jonard chiamava “narcisismo che copre un’incapacità di essere”.
Come ha analizzato in un importante e recente saggio lo studioso Emilio Russo, vi fu in Marino però una importante rivendicazione di autonomia. La scelta lessicale, l’esercizio misurato e lo sviluppo delle occasioni tendono spesso alla trasmissione di un’opera intensa e geniale, pur con i suoi limiti. Ma per superare l’immagine riduttiva, trasmessa da alcuni manuali, si potrebbe tornare alle Dicerie sacre (1614), dove l’ossessività del sacro si accompagni, come testimonia lo studio di Giovanni Pozzi, alla tensione religiosa al compimento, al culmine della corrispondenza umana.
La trasfigurazione del mito classico, la strategia dell’amplificazione di suoni e concetti sono il frutto di un’ambizione e di una misura con il suo gigante predecessore: Torquato Tasso. La Gerusalemme distrutta, opera incompiuta e indefinita, ne è l’esempio lampante, in cui la frammentarietà e la ossessività del sacro figurano un’epoca di transizione, una nuova temperie che cerca di elaborare materia sconfinandola ma che rimane ancorata a uno specifico realismo, nascosto ma mai eclissato.