Christina Rossetti (1830-1894) ha vissuto la sua esistenza nell’ombra, attraversandola e lasciando tracce del suo passaggio sospeso, quasi sfumando. Cosicchè la sua esistenza (nata a Londra con una educazione domestica e materna) appare, sin da subito, come adombrata dal ben più famoso Dante Gabriel, iniziatore del caldo e sensuale movimento artistico vittoriano pre-raffaellita. Il padre era stato un grande patriota napoletano durante la rivoluzione del 1821, poi esiliato a Londra e autore di inni patriottici che gli avevano dato fama e lustro, così come il suo incarico di docente al King’s College. Aveva poi sposato Francesca Polidori, dalla quale aveva avuto quattro figli, Maria, Dante Gabriel, William Michael e Christina appunto.
Ma Christina era la più schiva, la più ancorata alla devozione rigida e ferrea dell’anglo- cattolicesimo. Ben lontana dagli eccessi dei due fratelli, estremi ed abissali.
Proprio la purezza cristallina e la limpidità multiforme della sua poetica, che recupera la tradizione metafisica del Seicento e lo spazio profondamente religioso di G.M. Hopkins e, allo stesso tempo, tanto vicina alla grande Emily Dickinson per quell’uso, recuperato dalla lezione biblica, come scrive Franco Buffoni, “del congiuntivo al posto dell’indicativo, adattissimo a rendere in modo diretto e bruciante le immagini della natura (“Quando sarò morta, amore mio, non cantare per me tristi canzoni, non piantare rose né cespugli ombrosi: Sii l’erba sopra di me verde, bagnata di rugiada o temporale”) e dell’amore per l’amore, che il canto dell’allodola possiede secondo l’insegnamento keatsiano”.
La poesia di Christina Rossetti ama sfumare nell’idillio dell’istante che avviene. Il canto devozionale, la preghiera e la lezione della Bibbia si accompagnano a una sproporzione ingentilita della realtà, dell’Eros, della fiaba. A questa poderosa tensione si accompagnano le little songs che si depositano sul fondo di una innocenza candida, di un denso spazio virginale ed affettivo, raccolto e socchiuso.
La sua linfa vitale, che si innesta su Shakespeare, Tennyson, Donne (solo per citarne alcuni), vive di una scelta e di un’adesione successiva ad un unico crinale: la solitudine, e in particolar modo, alle conseguenze dolorose e limitanti della solitudine: «Dio m’ha temprata a sopportar me stessa, / il peso più tremendo da portare,/carico ineludibile di pena. // Tutti e tutto ho bandito da me stessa, / ho chiuso la mia porta e sono fuori/ tedio, passioni, per strada a vagare».
Il carico ineludibile di Christina è un simbolo rarefatto, una visione algida, composta sì, ma con una campitura scheggiata, dolorosa, silente.
Nei suoi testi più maturi, la meditazione sul dolore e sulla morte diviene un mosaico, la cui forza e il cui abbandono superano ogni languore, ogni nenia che possa rattrappire un anelito lucido ed intenso: «Chissà dove, io non so, ma certo esiste/ il volto ignoto, l’inaudita voce, / esiste il cuore che non mai, / non mai fino a oggi/ rispose alla mia voce.»
La forma del suo canto possiede una temperata bramosia di qualcosa di grande che anima la Storia, ma, paradossalmente, non si ha conoscenza del volto. L’unica via conosciuta è un trasognato, magico e surreale tempio poetico: «Quella scelta, ancor mia, nessuno sa; / Nessuno sa che m’ha spezzato il cuore – / l’idolo infransi e vinsi il mio volere/ scegliendo, allora, per l’eternità».
La scelta decisiva di Christina Rossetti è per l’eternità. Non è solo un amore non corrisposto o una fatale insoddisfazione irredenta, bensì un’adesione al volto dell’Eterno, l’unico che possa dar riposo allo spasmo, al lamento e allo stremo di un cuore inquieto: «Addio larve che vane vi svelaste, / (…) di là dal fitto nuvoloso velo/ oltre ogni nube mi ama il mio Amante Celeste».
Il suo agone diviene, quindi, un corpo a corpo con l’esclusione e con la labilità, con lo svanire inevitabile delle cose. I varchi che Christina apre sono occhi che non cercano la nullificazione, ma proclamano un dono doloroso e nostalgico di una verità ricercata, che si muove, lenta e limpida, oltre il fading, il passing, il vanishing: «Perché hanno fatto così in alto il cielo/ e la terra da lui così distante? (…) Non guardo mai la fiamma delle stelle, / l’ala del sole che salpa lontano/ senza che al cuore un desiderio vano/ mi si accosti ribelle/ Da catene di carne sono legata/ e fuggono la gioia e la bellezza/ al cuore teso, all’ultima carezza. / Mi avvinghio alla speranza disperata», o ancora: «Vita che muore – / e giorno dopo giorno/ la pena fa ritorno/ nel mio canto che geme, / la notte il giorno preme/ nel cieco tenebrore. / È la vita che muore».
La sua reclusione, che, come si è detto, permane vicina ad Emily Dickinson -non sappiamo se la poetessa l’abbia letta o meno- riecheggia l’amarezza del dissapore di un’invocazione, come una scia luminosa o un anfratto di penombra. Anche il suo stravagante e particolarissimo poemetto Il mercato dei folletti, si apre alla disponibilità dei vari strati di lettura magmatica: tra tentazione e redenzione, Eros e desiderio, pulsione e amarezza. Scrive Pasquale Maffeo: “dal silenzio della sua clausura esistenziale, la Rossetti, non meno di Hopkins, Kafka e Proust e prima di loro, apriva il varco a una reinvenzione obiettiva, a una volontaria alienazione dal reale che consentiva all’anima di estraniarsi, doppiarsi, osservarsi come altra da sé, reperto fantasmatico di cruciali transiti ribaltati su piani trasposti o rovesciati”.
Il suo ascolto si intride di questi reperti, come sulla schiuma di una lotta di profili. Cerca aperture al suo raspamento di vuoto e vertigine, alla sua disperanza che interroga e si genuflette a un altare nascosto, di cui percepisce solo lo schizzo, ma sa che c’è.
Tra la polvere e il gemito del creato, Christina Rossetti impone un nuovo capitolo di dolore e memoria, amore e gergo luminoso.
Virginia Wolf ha scritto di lei: ”Le tue poesie traboccano di polvere d’oro e della “diversa luminosità dei gerani”; il tuo occhio vedeva il “capo di velluto” dei giunchi e la “strana cotta metallica” delle lucertole – era un occhio che guardava con una sensuale intensità preraffaellita, che deve aver sorpreso l’anglo-cattolica Christina. Ma a lei, forse, dovevi la fissità e la malinconia della tua musa. La pressione di una fede tremenda circonda e salda tra loro queste canzoncine. [...] Appena avevi con gli occhi gustato la bellezza, la mente ti diceva che era vana e caduca. L’onda scura della morte, dell’oblio e del riposo lambisce i tuoi canti. Ma, a un tratto, un suono assurdo di risate e passi affrettati. Uno scalpiccio di zampe e strane note gutturali di cornacchie e sbuffare di ottusi animali pelosi che grugniscono e fiutano. Non eri certo una santa. Eri ironica e salace. Avevi dichiarato guerra a ogni inganno, a ogni simulazione. Eri modesta ma intransigente, sicura del tuo dono, convinta della tua visione. Una mano ferma potava i tuoi versi; un orecchio esperto ne valutava il suono. Nulla di lezioso, ozioso, irrilevante appesantiva la tua pagina. In una parola, eri un’artista”.