La poesia del gallese R. S. Thomas (1913-2000), pastore anglicano come Rowan Williams e vincitore dell’Heinemann Award of the Royal Society of Literature, misura la danza dell’asprezza, abita la fibra della realtà e i bordi dell’abisso, ingaggia la sua lotta con l’estremità dell’essere e si appropria di una purificazione di linguaggio che diviene materia viva e fuoco originario.
La stretta connessione tra micro e macrocosmo, tra l’esiguità di un lembo e la sproporzione degli orizzonti, promette invenzioni metaforiche, costruzioni di senso e promesse imbiancate, «come il piccolo tubero che si nutre di letame e cresce lentamente dal suolo ottuso come un fiore bianco d’immortale bellezza».
Scrive Domenico Pezzini: «La cosa appare immediatamente se solo si considera come una miniatura deliziosa (Song) riesca a esprimere in poche righe, con immagini tattili, uditive e visive di una grande intensità l’eterna lotta tra il bello e il brutto, il bene e il male, la vita e la morte, e in mezzo l’uomo come «viandante», sempre a rischio di essere deluso nella sua ricerca, travolto dallo stesso «errare / variare» del tempo»: «Vagare, vagare, sperando di trovare / il cerchio di funghi con la scorza bagnata, / fredda al tatto, ma lucente di rugiada, / un verde rifugio contro il variare del tempo. / E trovare invece i rudi cammini / del vento rovinoso e la pioggia ungulata; / l’isteria della tempesta nel cespuglio; / le creature selvatiche e il loro dolore».
Poi il Galles, la lotta, il sangue e il sudore dei rumori, le grida «nel buio di notte / quando i gufi rispondono alla luna, / e folte imboscate di ombre, / zittite ai bordi dei campi», la dolcezza della lingua, sfaldatura del passato «fragile di reliquie, / torri e castelli morsi dal vento / con finti spettri», un popolo «impotente, / malato di endogamia, / che importuna i rottami di un vecchio canto».
Ma la terra, quando toglie il fondo, porge anche il suo fianco arato, il suo tocco tenero di zolle e cirri, come se essa dovesse portare un’origine di scintille celesti, nei volti (Iago Prytherch), nello scacchiere umano, nel sole che screpola le guance.
Su questi volti, paesaggi dal «teatro bruno / sotto un cielo rude» e teatri umani (la fattoria «all’àncora nel suo porto di erba; / e più sotto la valle / che dà asilo ai suoi radi abitanti, / con la scuola e la locanda e la chiesa, / l’inizio, il centro e la fine / del loro lento viaggio sopra la terra»), dove solo, apparentemente, poco accade («A stento una strada, troppe poche case/ per meritare il titolo; giusto una via tra/ l’unica taverna e l’unico negozio/ che non porta da nessuna parte [...]»), «la ragazza che passa / da una porta all’altra si muove su una scala / che va oltre le due dimensioni del giorno scialbo», l’asse della vastità di cielo nella terra ha compassione e dolcezza, stupore e domanda a quel silenzio di Dio che ama rivelarsi nei particolari dell’ amore «in una scura corona / di spine che ardeva, e un albero d’inverno / d’oro per il frutto del corpo di un uomo».
La vita ordinaria di chi possiede il «ghiaccio grigio di una faccia scheggiata dalla pietra della vita», e la povera dignità lucente di essere uomini, che attraverso il sacrificio rivestono di senso glorioso la loro attività, si permea «di una realtà scultorea di persone che nell’immobilità e nella ripetizione, da leggere come fedeltà a una terra e a una vocazione, trovano l’espressione e il vertice di un lontano eroismo, tanto più grande quanto più nessuno sembra accorgersene o percepirlo. In realtà […] l’essere «a parte» di queste creature, poste ai bordi di un mondo «veloce», diventa una scelta, un invito a «volgersi a lato», ed è la vocazione di chi, vivendo nei campi, arriva a scoprire nel ricorrere fedele delle stagioni quella legge della vita che è la «pazienza» (Domenico Pezzini).
In Pietà (1966), appare l’immagine di una croce disabitata in uno scenario immobile che affolla l’orizzonte, ma è il Corpo a darle senso e a trasfigurarla di senso «tornato nella culla / in grembo d una vergine».
Poi ancora il passo leggero di quest’uomo nella brughiera a cercare Dio, silenzioso e nascosto, che apre il suo varco nei «puri colori / che facevano inumidire l’occhio, / nei movimenti del vento sull’erba» a far sbriciolare l’aria franta in pane.
È l’esito di una resa fertile, il passaggio placato e umido della lode, dell’aria piovuta addosso, come la campana muta aperta sulla preghiera in ginocchio che fa cadere calura di pioggia e fioritura sulla morte.
Il silenzio della sua poesia non si impasta di vuoto fine a se stesso o di realtà insufficienti: diviene interstizio-grembo necessario per accogliere e preghiera gioiosa e dura.
Persino la concessione dell’assenza incolmabile di una croce disabitata, è esperienza di qualcosa che sta per accadere, come in ginocchio in una lotta di altari nell’estate «aspettando che Dio / parli»: «Suggeriscimi, Dio; / ma non ora. Quando parlo, / anche se sei tu che parli / attraverso me, qualcosa si perde. / Il senso è nell’attesa». Cos’è questa attesa? Di cosa è composta?
Essa, struttura stessa della nostra natura ed essenza della nostra anima, è ciò che permette alla tensione umana di raccogliere il dramma dell’esistenza, volgersi di lato, percepire la grazia davanti agli occhi e desiderarla, in quanto connaturata al cuore e alla sua precipua dimensione.
In H’m (1972), Laboratories of the Spirit (1975) e Frequencies (1978), il disagio metafisico invoca una lingua che «permetta il contatto con Dio, il che significa trovare una riposta agli interrogativi più profondi che sorgono da un malessere percepito come radicale» (Domenico Bezzini).
C’è sempre una sproporzione tra linguaggio e realtà, qualcosa che nel laboratorio dello spirito trova pronunciamento ma inadeguata incompletezza, come arcobaleno nel suo andirivieni, impronta decisiva e sicura ma non esaustivo di una tenera sconfitta, di un digiuno chiuso e di una veglia inafferrabile.
Fermarsi e chiedere, bisognosi di Colui che «occupa gli interstizi / della nostra conoscenza, il buio / tra le stelle. Suoi sono gli echi / che seguiamo, le orme che ha appena / lasciato. Mettiamo le mani / nel suo fianco sperando di trovarlo / caldo», per lasciarsi cogliere nella sorpresa di un annuncio che viene, di un’aspettazione che faccia trasparire uno spolverio di eterno già qui, da gustare e da vivere.
Scrive A. Motion:
«R.S. Thomas è stato un poeta di paradossi, nato in un’epoca paradossale. Fu un attivista a favore della lingua del Galles, che però scrisse per lo più in inglese; fu un prete della Chiesa anglicana che svolse il suo ministero in Galles in una comunità in maggioranza non- conformista; fu un uomo devoto reso in quieto da un «dubitare onesto» […] Nella forma i versi di Thomas somigliano a piccoli scogli arcigni, che sfidano ostinatamente l’erosione del tempo. nel colore e nel ritmo possono spesso apparire foschi. E però le sue poesie sono illuminate da stupefacenti esplosioni di luce solare, e irrigate da ruscelli che fluiscono verso aperture e opportunità. Il loro maggiore successo a livello emotivo consiste nel mostrare quella fede che cresce nell’attendere e nel discernere».
La religiosità di Thomas si poggia sull’ampio slargo della redenzione e dell’Incarnazione. Il sostrato biblico che attinge dall’Antico Testamento, nelle figure di Giacobbe e Mosè, rivolto atterrito verso il roveto ardente e in varie cromature di immagini, percepisce l’oscurità delle rovine e l’inghiottimento di ombra e suono: «L’ultimo quarto della luna / di Gesù lascia il passo / al buio; il serpente / digerisce l’uovo».
La luna rilascia il suo buio, il serpente divora l’uovo nei suoi emblemi di male. Thomas rimane in attesa: gli stessi mari sono battezzati, la gente ritorna al suo pellegrinaggio e la luna si fa strada nelle ombre della terra, tra nuove fasi di preghiera.
L’ombra non diviene più quella macchia scura sulla luce ma il tempo modale con il quale Dio raccoglie il cuore dell’uomo: «L’oscurità implica la tua presenza, / l’ombra della tua mente scoscesa / sul mio mondo. In essa rabbrividisco. / Non è la tua luce che / può accecarci; è lo splendore / della tua oscurità. / E così ascolto / invece e odo il linguaggio / del silenzio, la frase / che non conclude».
La preghiera delle sua poesia realizza e riceve in ginocchio la sua comunione, diviene presa di possesso della realtà per trascinarla verso la compiutezza del destino, del ritorno a Dio, nella nudità delle ginocchia, nella sporgenza dell’abisso, nell’eco di un arrivo.
L’anima del suo pellegrinaggio non ha candele spente, si tratta, in definitiva, di lasciarLo entrare, nel centro dell’io e di sostare sotto i protiri, sugli orli, sui promontori di buio.
È l’esito di una esplorazione che ricerca il segno di una presenza, come una marea inondata che ascolta.
Abbiamo ali, bussole, compassi, campi luminosi, cosa «importa / se non dovessimo mai arrivare / per riprodurci o per svernare / nel clima delle nostre concezioni? / basta aver ricevuito ali / e un ago nella mente / per rispondere al suo livido nord. / Ci sono tempi anche al Polo / in cui pure lui si riposa nel suo ritrarsi / così che là v’è luce lungo tutta la notte».
Ed ecco che egli insegue la fessura disarmata, l’erosione della terraferma, l’assalto alle nude rocce, per aprire una promessa e una diacronia che possano traboccare, per disarmarlo, «scoprendo da qualche parte / tra le sue fessure depositi di misericordia / dove la fiducia possa mettere radici e crescere». Una maggiore consolazione, una fioritura risorta, per «Un movimento di farfalla / come se un arcobaleno / avesse messo le ali [...] a rammentare / la promessa di Dio di mettere / da parte l’ira [...] quale, ci chiediamo, fu la natura / del nostro peccato da meritare / un perdono così bello?”.