La poesia di Michael Krüger (1943) possiede la refrattarietà del residuo, l’impossibilità di accertamento di uno scarto che è intuizione e lesione, giudizio e abbandono, indicibilità rifluita in un’attesa, come scrive Giorgio Linguaglossa, «che è un intermezzo, un interludio, un interspazio-temporale tra decolli annunciati e cancellati. Come se la cancellazione fosse la spia di una condizione oggettiva per ristabilire il giusto ordine delle cose; è una poesia questa che non deriva più da alcun ordine delle cose, perché non c’è alcuna ragione di un tale principio nella società dell’organizzazione totale e della globalizzazione amministrata»: «Un leggero rumore, come di piedi nudi / su fredde mattonelle. Qualcuno s’avvicina alla finestra, incorniciata / di parole belle e tristi, l’apre e guarda fisso / nell’immensità. Ascolta come gli uccelli abbandonano / il paese, ad alta quota, il battito delle loro ali / compone il metro della poesia conclusiva».
L’andatura epigrammatica ed elegiaca si appropria della materia dicibile, partecipe di una litania dimessa, di un tessuto verbale che, se da un lato, si appropria della verbalità frammentaria, dall’altro esplora e concreta sguardo ed esperienza quotidiana, in cui la diluita materia vivente diviene emersione prospettica ed «è sempre uno spiccato senso dello spazio, del movimento nel bianco della pagina, a dare vita alla strutturazione poetica, all’orchestrazione di suono e senso in una forma metrica» (Elisabetta Niccolini).
La poesia che squaderna la puntualità dell’esistere, il segnale che origlia la strenua fissità del vuoto e della tristezza, che scandisce la prospettiva dell’umano in uno sguardo partecipe, rivela vicinanze e tenta la salvezza reale del mondo, occupandosi, come scrive ancora Giorgio Linguaglossa, «dell’amministrazione degli “scarti” come un amministratore di condominio si occupa dei rapporti millesimali tra i condomini. Il poeta come amministratore di condominio dei propri “scarti” di tutto ciò che è scaduto da tempo ed è perciò inutilizzabile (inutilizzabile innanzitutto per i lettori della borghesia illuminata). Una poesia che cerca se stessa nella discarica indifferenziata dei rifiuti è una “cosa” talmente ostica e inafferrabile da determinare un rifiuto istintivo […] la migliore poesia per la Germania è quella che descrive la perdita dei foglietti sulla quale la poesia era stata vergata; analogamente, la migliore poesia per descrivere l’«inverno» è quella che «narra» il fatto che il proprietario dell’agenzia di viaggi «ha preso la cassa e ha tagliato la corda», e che «la nettezza urbana» dichiara di non avere problemi».
La sospensione lirica propone e marca la sua frammentazione composita in un cenno che sembra quasi la linea di una procedura perduta, di un dialogo che non ammette recupero ma che si sospende, appunto, nella terrena affermazione della realtà sopita e vibratile: «L’edicola / si vergogna delle ripetizioni. / Molto sfoggio molto onore. Ogni giorno / si scoprono nuovi valori. Ieri: tenerezza. / Oggi: l’amore in senso più lato. / Come si somigliano le immagini. Ogni giorno / un nuovo pullover, che svia gli occhi / dal volto. / Da ultimo il mio vicino porta gli occhiali da sole».
Laddove la corrispondenza della scrittura con la realtà impone fratture, condensa immagini e significato in una non-rappresentabilità, in una ricerca incerta di certezze, e infine, in una interpretazione che materia non mostrata ma aperta.
Come un ritaglio, la sua linea vive del processo sintomatico del mondo, viene pervasa da nostalgia e malinconia, si racconta nell’ironia delle tipologie umane, che solo apparentemente spezza l’andatura cromatica e poetica della sua dialettica.
L’origine, la vitalità, la ricerca, i colori sporchi delle città, la porta accostata di casa rivelano la composizione delle mancanze e delle campate della fisionomia della consistenza di ciò che si vive: «In casa tengo la porta solo accostata. / Potrebbe darsi che tu venissi. / Posso aspettare. / Posso aspettare. / All’una di questa stagione / l’ombra si fa puntuta. / Adesso squilla il telefono, / presto il suono squasserà la casa. / (Che cosa si troverà nelle macerie?) / Sollevo cautamente il ricevitore / e taccio […]».
Commenta Giorgio Linguaglossa: «[…] la forza espressiva dei componimenti di Krüger deriva proprio dalla grande consapevolezza che l’autore ha del demanio di rottami e di scarti entro la quale la poesia deve provare a rovistare e saccheggiare: le esperienze significative saranno, appunto, quelle che abitano stabilmente il demanio dei rifiuti indifferenziati delle esperienze non più attingibili (ovvero, attingibili soltanto nella loro manifestazione fenomenica di indirezionalità)».
La profondità dell’io cerca zone rarefatte e bellissime, qualcosa che sia natura pura e vivente, elementare epifania non del tutto raccolta.
Scrive Cinzia Tanzella: «La fisionomia complessiva dell’immagine della natura di Michael Krüger si profila nell’elementare visione dei quattro elementi: l’aria, ovvero il cielo, spazio di contemplazione e riflessione verso il quale si volge lo sguardo del poeta, spazio d’estensione in contrapposizione alla città, alla propria stanza da lavoro; l’acqua, che scorre nei fiumi, nei ruscelli, e si placa nei laghi, nel mare; la terra, la pietra rude o a ciottoli cubiformi; il fuoco. A incorniciare queste immagini si alternano quadretti di stagioni dell’anno in cui si occupa «l’invisibile giardiniere del tempo»».
Come la città: «Laggiù la città. Giusto un palazzo di uffici / mandava ancora segnali, e la luce rossa / dalla cima del campanile rispondeva / a singhiozzo ai rollanti richiami del cielo. / Cosa volevi dirmi? / Schiena a schiena fissiamo infreddoliti / il telo grigio della pioggia, se mai si mostrasse / un volto o un occhio che ci riconosce».
La sperdutezza richiede agnizioni. L’espressione del silenzio zigrinato e non trovato, come inchiostro seccato e fragile, chiede pienezza, forse un appiglio non sbiadito: «Talvolta una sola frase ti compendia, / poi nuovamente non basta un libro, / telegrammi ti sintetizzano, / parole viaggianti, zigrinate / da una telescrivente. Ogni lapis / esala prima o poi la sua vita, l’inchiostro / si secca: allora tu siedi / smarrito alla scrivania, lodi / il mondo davanti alla finestra e le vecchie cartolerie / dove la vita è rimasta inalterata».
Come la fissità di ciò che c’è sembra annullare il dirotto delle fughe, le immagini sprofondate, il grumo delle descrizioni distaccate che non ospitano, occupando gli spargimenti dei frammenti irrisolti e coperti: «Sopra il pendio / immoti gli uccelli: / i loro gridi quasi non toccano / il corpo perduto. / Ancora prima dei loro nomi / conobbi il loro sguardo sulla terra. / Il mio pensiero entra in te / come un uccello. / E il vento / che mi prende di fronte / riporta la tua voce, / schiarisce il cielo / sopra il pendio».
O ancora: «Sono le cose semplici / che non ci fanno dormire: / una palpitazione, / l’afferrare una mano, / un guardarsi intorno con stupore. / Non gli arzigogoli della mente, / non le strane fantasticherie, / non il gioco delle maschere / della verità. / È la grande orma / che d’improvviso ci segna la via, / mezzo comando, mezza benedizione, / e col cuore che palpita e inciampando / attraversiamo il sonno».
Cinzia Tanzella, arguendo sulla aspettualità cromatica di questa poesia quotidiana e singolare, scrive: «Nel chiaroscuro si contraddistingue il grigio-cenere, la luce opaca del sole o della luna, il buio della notte, il bianco pulito, il colore della carta, della scrittura del mondo, della morte, dell’inverno nevoso. A volte il tutto compare sotto un velo antichizzato dall’ocra giallo scuro. L’unico colore primario che compare nella sua compattezza è il verde, colore degli alberi, della natura, luogo in cui le parole possono posarsi su un foglio e delineare quel po’ di se stesso che nella nostra realtà stenta a ritrovarsi».
Il volto dell’esistente ha ritratti persi, pochi tratti ma inestinguibili come destini riconosciuti e memoriali indenni, microcosmi particolari di una quotidianità franta come la Storia, quella universale e la propria, privata e privativa di un uomo che è «stanco, ma di una stanchezza non psicologica o sentimentale né personale, bensì epocale, la stanchezza della specie che s’immedesima “nella storia dello sfinimento”» (Claudio Magris).
La ritmata scanalatura del suo mondo è perduta enclave di vita, ritrovamento, rifugio, domanda inesauribile e alternata come inattesa promessa o labbra facili di chiarori, che fanno vedere la parte di sotto delle foglie, le lettere abitate, le parole oscurate e create e le arie sottili.
È un appunto di colloqui senza requie la prima vista delle cose, le suite che svelano i discorsi e la notte che apre distanze tra i concetti, come il ritiro delle stelle tra le nubi.
Forse un percorso di ombra e luce la fermata su un tratto libero che da un lato, scompone l’immaginazione di una sollecitazione clandestina del vivente, dall’altro viaggia la penna delle sue stanze interiori verso l’ospitalità reiterata dell’ispirazione e dell’ispezione della comunione del suo compendio vitale: «Sono in viaggio da un bel po’. Le mie scarpe / hanno sottratto alla ghiaia l’epos della strada, / all’asfalto il suo sospiro oleoso. Ho preso sempre / strade che avevano tracciato altri, / ogni pietra un ricordo di precedenti viandanti. / Ho sentito il freddo e il calore non conquistabile, / riconosciuto la sfortuna dagli occhi brillanti. / L’amore non mi ha trattenuto. E il dolore / mi correva accanto e non voleva sorpassi. / Canzoni ho ascoltato e anche prose, / mai sono inciampato su una rima. Ho incontrato gente / che aveva risolto il problema della morte, / altri che credeva ancora nell’immortalità. / ciò che i miei predecessori hanno lasciato cadere / l’ho raccolto, ecco perché il mio zaino è così pesante. / Ora che mi riavvicino all’inizio, / i miei piedi non ce la fanno. Sono stanco, / non ci vedo quasi più, il viaggio mi è costato gli occhi. / Se lei permette prendo un pezzo di pane / e un po’ di vino. Grazie. Adesso mi sento quasi come a casa».
La voce indicibile e segreta della natura promana l’aspettazione della sua voce e del suo silenzio: è squarcio rado, è strattonata sulla città: «Una pioggia rada e il cedro / ricamato con mille e uno punti nella sera / perde la calma. / Anche le pietre si mettono in moto per cercare una riva. Soltanto i corvi / dalle nude facce biancastre / decidono di rimanere. Strattonano / il panno che ricopre le cose / come ci fosse alcunchè da mostrare. / Tutto l’ancora visibile si ricorda / dell’invisibile che sempre, in eterno / rimane invisibile, quando il temporale scoppia».
Il suo avvenimento impegna il chiarore precipitato del tempo, entrato e vivido nelle battute preposte allo sguardo, nelle invocazioni spalancate della bocca, come l’imminente estate ormai andata in un’altra luce e in un’altra promessa d’amore: «Volano basse le rondini. In alto / dove i falchi si esercitano nel cerchio perfetto / non c’è più niente da prendere. / Un bambino dice: una volta / vorrei vedere Dio in piccolo, / e incrocia due dita».
Laddove l’infanzia, la nostalgia dei cari, il tempo trascorso si commuovono nella sintesi grammaticale delle percezioni, il poeta compie il suo breve passo di stanze. Un saluto, un sentore di temporale, un disegno di gesso sul muro in ombra, per compiere la perfetta presenza dell’umano gremito e lavorare su parole che restano sole.
Il coro del mondo, l’avvenimento sincopato del presente, il colloquio musicale con il tempo, vivente e vissuto, scandiscono e schiariscono la raffigurazione del reale in tutte le sue estreme tangenti, come spostare l’ora, come rubare le stagioni: «Un merlo morto / sotto la mia finestra. / Per un’ora aspetto / che si sposti / l’ora».
Scrive Anna Maria Carpi: «L’occhio di Krüger, da sempre amico della natura, qui opera in grande, fra morti e viventi, umani, animali, vegetali e minerali, e invita a guardare. Non è mai stanco di seguire il mutare delle stagioni, delle luci, il lavorio degli insetti, di distinguere le variazioni del vento e i movimenti degli uccelli, onnipresenti, stemperandovi, con intermittenze, un io che ben di rado parla di sè» e le istantanee imminenti dei temporali e delle notti che non sconvolgono le fioriture prodigiose di una linea di guerra, di un’antica elegia incipiente: «[…] Presto piove, / il dondolo sogna di già il vento. / Se gli spessi giornali domenicali / hanno ragione, tutto questo non c’è. / Non c’è il picchio che affida / all’acero la sua elegia, non ci sono / le erbacce, amiche dei calabroni. / Dato che noi disprezziamo l’imperfezione, / ora una macchina invisibile si affaccenda / intorno alla perfezione. Peraltro / anche il melo, che come me / è venuto al mondo durante la guerra, / riprende a fiorire».
La sincope degli sfondi cerca la lingua per risanare il mondo, la parola che segna e nomina, il dito che freme e segue le traiettorie della storia. Lo scorrimento dell’esistenza nelle luci serali e dei nomi che hanno accompagnato le carezze delle pagine, dei luoghi (gli hotel, Venezia, Erfurt, Instanbul, Calcutta) e degli occhi (Simon, Milosz, Fellini, Tabucchi) rappresentano il segno di una scrittura appoggiata, come scrive Nicola Vacca, «sulla liquidità che accade, scoprendo che oggi non si è più di nessuno e che diventa impossibile immaginare un futuro per il futuro. La sua poesia è terrestre ma soprattutto è radicata nel disordine che avviene». «Ciò che noi, dopo un gran rimuginare, / chiamiamo il folto della vita / mette in forse la parola, / la lingua fallisce. / Il folto è senza parola / e ora ai piedi del tronco c’è la mela».
Il tenero fallimento della dettatura del mondo, nonostante la sua insita cronologia, si mette a guardia di una parola che non può dire tutto perché non riesce a compiere la bardatura dell’essere e il suo sfondo che domanda, «se il mondo l’abbiamo creato noi o se sia stato creato per noi e da chi, se ci sia una ingiustizia superiore, che senso abbia la memoria di una “lingua profetica” con la quale ora non abbiamo più niente da dire» (Anna Maria Carpi).
Attraversare la realtà significa scoprirsi privo di radici. Spodestato dalle origini, dalla genesi delle appartenenze («Ancora si ode il mondo / al di sopra dei libri chiusi, / il suo respiro gonfio di stupore / perché le parole gli finiscono»), da una consolidata distruzione di memoria (Il mondo è diventato così piccolo / che le rondini che volano basso / se lo inghiottono in volo») e lingua deteriorata come libri vuoti, in cui però la fiducia nell’umano e nella testimonianza della invasiva e invincibile speranza rilascia risvegli e spalancamenti: «Il mondo che verrà / per un occhio maligno / prende inizio/ nel caritatevole cuore delle parole / Tutto trema / E anche Dio trema».
Commenta Anna Maria Carpi: «La visione del muto mondo in rigoglio non dura, e insoluta è la differenza fra la coscienza umana e tutto ciò che la circonda, riassunto da Krüger negli amati, «incuranti» uccelli che possono vivere di briciole. Il mondo che verrà – questo è il punto – Krüger non lo ama, a essere sinceri noi ne abbiamo paura quanto lui, e tuttavia, o forse proprio per questo, esso non potrà prendere inizio che «nel caritatevole cuore delle parole».
Ma forse l’inattesa bellezza è rapita dietro l’angolo, come attesa o nostalgia di qualcosa che sta per accadere e su cui scommettere, come proroga allo stupore, come infinito bisogno e sostanza.
Michael Krüger, Spostare l’ora, Mondadori, Milano 2015, pp. 242, euro 18.