Il nuovo lavoro di Francesca Serragnoli, La quasi notte[1], edito da MC Editore, consegna la potenza e la ricerca della verità, si appropria di un tempo liminale e potente, affermando sì la tragicità, la sospensione e la rastremata coniugazione del mondo ma anche la delicatezza, la denudazione, l’intensità pura e senza orpelli del tempo e del cielo:
«Morire nella distanza / nel prato laggiù il colore vola via / il fiore fissa sgomento / l’animale ferito della sua ombra. / O mischiare ogni ora della cenere / cucinare un pane morente / scavare dopo che è crollata / anche la propria stessa mano / l’alato desiderio del profilo di rondine / sbuca dalla terra / l’occhio spalancato senza vita, / senza morte».
O ancora nella sua dolorosa offerta, consegnata come il subbuglio di una carezza: «Nessuno mi vuole come madre / mi guardano e non parlano / con occhi celesti o marroni / battono le mani sulle ginocchia / e corrono scalzi negli ingressi luminosi».
La potenza vera di Francesca Serragnoli sta nell’acme duro e sofferto, e allo stesso tempo, lucente, del suo respiro, unisce acqua e sangue, pietà e cigolio della carne: «La lancia fruga il volto / la punta di un nome / pestato dai sandali / esce acqua e sangue / il pianto dal costato / riempie un calice / il brindisi di una mano / e noi a tenere in bilico il respiro / a mischiare Dio e spumante / la parola pietà / il cigolio della carne».
Davide Rondoni, nella sua nota, pubblicata su “Clandestino”, soffermandosi sugli influssi autorevoli ed elevati che permeano questa poesia, dalla Achamatova alla Cvetaeva, fino alle recisioni di Cristina Campo, ma, soprattutto, nel fulgore prossimo di Giovanna Sicari, scrive:
«Nel dettato di questa ultima raccolta, “La quasi notte” edita per MC editore in una collana diretta da Pasquale Di Palmo che firma la nota, alcuni elementi già presenti (lo spasmo delle viscere senza figlio, la quotidianità visionaria dell’amore, una pietas universale che appunta la sua precisa misericordia su figure – e su se stessi – senza aloni sentimentali) si fanno più radicali e in cerca di una asciuttezza del verso e della visionarietà. I cortocircuiti si fanno più serrati, le scintille che ne vengono più acute e luminose di luce particolare, per nuclei di poesia mai persa nel simbolico ma acmeista per acuto sentire del reale e della sua compresenza in elementi diversi. Ne escono poesie di rara intensità»[2].
La tensione al Destino, la promessa scompigliata di resurrezione («Ho voglia di destino / di gente color talpa / che scompigli la terra / di risorgere / da chi ha smosso la morte»), il lino che separa i pianeti consegna il tempo fertile e fecondo di uno scavo immenso, di un cielo agognato e impastato con la terra: «Un giglio d’acqua tra le ciglia / le radici spaccano il viso alla pioggia / chiamano il cielo / come un gatto struscia il blu al suo Dio / la zampa gioca agli occhi / o è una buffonata il pianto / o un catetere desolante lo raccoglie? / Gli occhi spaccati in due / e un funambolo tra le travi attraversa il grido / è la vita all’altezza della vita / nelle mani null’altro».
La potenza del reale, la sua rarefazione, l’incavo, la via della salvezza e della creatività come nodo centrale dell’epoca, come recita un esergo di Berdjaev, condensano la vita all’altezza della vita, i suoi odori tesi all’eterno: «L’odore di scoglio / rappreso in un sasso di sangue / entra nei polmoni / come un gabbiano / la roccia è viva di muschio / il verde esce come un animale / nel verde chiaro / la pietra scansata di ogni sepolcro / il vento scuote lo sguardo / come un ramo d’ulivo / quasi spezzato».
L’attraversamento delle cose nelle cose, il ventre umido «sporcato di pietà / di piccioni dal pianto nero», un tempio nudo, un ritorno bambino, l’ombra natura che, allungandosi, stacca la sua morte, è un dolore di viscere e di bellezza, reinventa la parola affinchè brilli, si prostri e, inchinandosi, celebra il solco aperto della realtà prostrata, decrittata come un mosaico sub-lime:
«Miseria delle storie non raccontate / l’ora davanti a cui / non potrai più inginocchiare niente / l’essere ascoltati quando si piange / le cicale le foglie del leccio / le scie bianche incrociate sulla luna / i nasi bagnati degli animali / l’odore del miele / bere quando si ha sete / l’odore delle mani che hanno cucinato / il silenzio nella sala d’aspetto / il caffè, il vino. / Tutto nel mondo è piccolissimo / cade in terra come i bambini / ti guarda con occhi impietriti / un secondo prima di piangere. / Allargo le braccia / come una madre o come una croce».
Il radicamento della poesia, la sua spogliata verità, il valore immenso che non conosce autoreferenzialità, ma si rende clemente e assoluto, fino all’ultimità, fissa il tempo della quasi notte, prima che gli storni avvolgano l’aria, qualcosa che non si riesce a strappare, permane oltre l’oscurità, nel «vivente mio fulmine spampanato», «quando posi la tua vita contro la mia / una capanna di briscole / la casa cade / e dormiamo abbracciati alla terra / con un petalo aperto all’ape di Cristo».
La quasi notte, dunque, diviene un fiore e una bocca aperta nei nidi, una nascita di attese benedette, un bacio descritto dal fuoco, per ricomporre la vita: il sorriso del primo sole di maggio, la mano ripresa, il pudore attonito, l’alba recisa, il cuore dischiuso dell’eternità:
«Ieri notte a Bologna / la pioggia di fine ottobre / continua a cadere / in ginocchio rifaccio / il gesto del cielo / quando scende rosa sulle tue spalle / la distanza che patiscono le stelle / è un sorriso spaccato / in due orizzonti / lacerati dallo spazio / la sinuosa donna che è il silenzio / stringe la tua mano e la mia / dal mio cuore evapora / l’alzarsi e l’abbassarsi del vivere / questo è il luogo dove il tempo / ha la testa schiacciata da un raggio di sole / l’eternità, madre di ogni lacerato addio / ci tiene per mano».
O come avviene nei suoi Appunti sparsi, dove l’altezza figurativa chiede all’arte di attraversare il suo steccato, pestare la poesia, come ha fatto Dante, e «ogni lacrima ha vocazione a esondare», nella bellezza intravista delle cose:
«[…] Non si scrive per essere poeti, per essere bravi poeti, il punto di mira, come direbbe Ungaretti, è sbagliato. Si scrive per ritornare bambini, per disimparare la tecnica, il saper vivere. Il saper scrivere viene annientato dalla realtà, non serve a nulla. La rondine di cui si parla è morta, e se la rigiriamo con la tecnica, con le metafore piano piano si dissolve anche la sua stessa polvere. La mia poesia rischia che l’idea venga prima della figura. L’idea non ci garantisce, i concetti non salvano la realtà dal diluvio, non ci mettono le cose in cassaforte. Devo essere un uomo e non l’idea di un uomo. La contemplazione mistica si avvicina talvolta più al silenzio che alla profanazione. È vero che tutto è dentro al pensiero, fuori non sappiamo cosa ci possa essere e il pensiero si avvicina a ciò che intendiamo con la parola spirito. Ma la poesia non è un pensiero in metafore o in immagini belle, è un oggetto da fare, è una creazione, anche se non dal nulla. La poesia ha come oggetto la bellezza intravista nelle cose. Il mondo ha bisogno di bellezza per non cadere nella disperazione, citava un Papa. Il poeta non crea la bellezza, la contempla, la scorge come una sfuggente epifania. Se oggi la poesia ha divorziato dalla bellezza è perché è entrata nella logica dell’utile. Invece come è liberante non servire a nulla, le cose belle, la bellezza spaventosa, insopportabile, quella di cui Michelangelo chiedeva «chi mi difenderà dal tuo bel volto? […]».
Serragnoli F., La quasi notte, MC Editore, Milano 2020, pp. 82, Euro 12
[1]Serragnoli F., La quasi notte, MC Editore, Milano 2020.
[2] Rondoni D., Francesca Serragnoli. La poetessa centrale e scomoda, in Rivista Clandestino (www.rivistaclandestino.com/francesca-serragnoli-la-poetessa-centrale-e-scomoda/), 15 dicembre 2020.