Il nuovo libro di Anna Maria Carpi (1939), E non si sa a chi chiedere[1], è il sigillo di un’invocazione imperitura, una chiamata che interroga l’essere fino alle radici e alla primigenia domanda carsica, come scrive Daniele Piccini, in cui ogni
«piccola briciola dell’essere – perché la parola dell’autrice è quotidiana, è immersa nel trantran dei giorni – si domanda il suo senso, il suo posto, lo cerca e non lo trova, eppure non dispera, continua, si riaccende attorno alla domanda. I cari che se ne sono andati, gli animali amati come creature, quasi come persone, le loro sepolture, le ore del giorno (specie la sera e la notte), la casa e i vicini, i riti dell’anno, le stagioni: tutto il carillon dell’esistere suona e risuona con il suo dolceamaro e dolente andare a vuoto. Ma davvero a vuoto, invano? Oppure c’è un grembi più grande, che accoglie anche chi non ne sa nulla, anche chi crede e insieme e non crede, chi nemmeno sa o ricorda di cercare? È tutto un inseguire di interrogarsi sotto traccia, racchiuse nella trama del tempo con i suoi soprassalti e la sua nenia uguale»[2].
Ed ecco che la poesia richiama un sopravveniente incanto dialogico, la traccia archetipica di una parola che deve vibrare come cromatica geometria vivente, dove l’esplosione e il trionfo della bellezza si accompagna al ripasso delle date, alla natura che chiama e forse sembra escludere, muta nella gioia e richiamata nella scrittura:
«PRIMAVERA NON SAI chi l’ha chiamata / sulla via fuori / dell’ufficio postale. Tra i semafori / esplodono ciliegi giapponesi / come sessi di bimbe, rosa vivo. Dai rari lembi d’erba cittadina / guardano in su delle faccine intente / di margherite e bocche di leone / e spilli azzurri – nontiscordardime, / e sulla piazza Sud / davanti alla stazione / è il trionfo dei grappoli maturi / erti potenti degli ippocastani, / una festa regale, pochi i rossi, / i bianchi abbondano, è il bianco delle nozze, / vergini restano solamente i glicini / all’imbocco del parco, nella via parallela, / e tre strade più in là: / esita il lilla pallido, ha paura / di affacciarsi / nell’assoluto di quel verde verde. / Non ti fermi a guardare? / Sì ma per qualche istante, / è così bello / che diventa un tormento. / La natura! / Lo so che io non centro. / Io non sono natura».
Le persone care non ci sono più, si rivedono in una vestaglia, in un lembo di notte che chiama, dagli spiriti amanti e amati lasciati nei visi, dagli animali indifesi avuti vicino come carezze di congedo ed invito.
Un io-mondo, come lo spasmo di Wordsworth che sogna trascendenze senza fine. Una trascendenza ebbra, una liberazione d’estasi. Oppure nel ricordo di Saba, diviso di amore e malinconia, squadernato nei versi che sono piena vivente e gesto libero che si agghinda e si nega.
Rilke, travolto dal vortice dell’amore sfigurato, dallo strazio dei travasi di dolore e di speranza. La parola che c’è, si fa materica, minima e cosmica e invocazione, e poi domanda elementare di pienezza, essere, sponda di mare.
Gottfried Benn, nella Prussia di stagni e di topi, che chiama frammenti e distillazioni, i gioielli del suo venir meno. Il canto postumo che sopravvive nell’eternità e nelle gemme dell’anima.
Vi è in questo libro una sorta di apologia gioiosa e dolente della memoria, una stratificazione vigile dell’istante, raccontato nel gesto e proiettato in eterno, toccato dalla trasparenza carnale: «Qualche volta ho amato un altro corpo / un’estasi, l’ho avuto ed era mio, / due che fanno uno, / ma nulla è più irreale della carne. / Non è la mente, sono i corpi a dire / come si è soli».
Allora cosa può la parola? Essere speranza oltre l’oblio, come fa un pesce: «un attimo la testa / fuori del mare, / schiuma rimbombo d’onde / ansar di branchie, / un guizzo e risprofonda».
La poesia di Anna Maria Carpi entra nella profondità, manifestando il gesto della quotidianità, il trionfo dell’umano in ogni forma beata e finita, primizia di lecci, mistero che si compone di terra reclamante, forse perduta nel tutto o dispersa, ma possibile nella stellata dimora di Dio.
Nonostante il male e la finitudine, la precarietà irrisolta, lo sgomento rovinoso di guerra (Holms rasa al suolo, Mosul o Rakka), noi rifugiati.
E Dio, cercato tra la polvere che allontana e la pietà richiesta, in un incanto di rondini che si rincorrono e chiamano un incanto di nuche, di treccine, schienette dritte e tenere manine, è la pura bellezza: «Ma forse lui mi vede / la notte quando mi lascio andare, / sotto la coltre calda che mi aggiungo, / nella stanchezza che non ha parole, / poi nel sonno benefico che viene».
O ancora come un mormorio tra le braccia. Farsi creatura per desiderare un oltre ripetuto per sempre, una foglia in fuga, già ripartita: «Uno perché ha studiato i russi, / uno perché le donne lo abbandonano, / poi la mamma di un figlio scombinato, / poi una donna che paura di tutto, / poi vengo io. Per così dire: cercatori di Dio. / E mai che se ne parli. Non osiamo. / Ma cosa abbiamo in mano? / Non una prova, / solo un sentimento / sempre più fragile sempre più senile – / e lo sappiamo bene: è dei pargoli essere felici / pieni di sé, di gloria, vanagloria. / Ma senza questa non vedremo Dio».
La poesia diviene transito e passaggio impalpabili e concreti, allo stesso tempo, tutto passa nell’attesa di chi c’è per sempre, oltre la sofferenza, permanenza al di là delle evanescenze. E sono tramonti d’oro, scrittura bianca sui giorni vuoti, ma speranza viva che brucia, che annulla il nulla, che abbraccia la curva dei nomi o l’alba che sorge come inno caduco e splendente: «la memoria è un sogno / il mondo è già finito, / o non c’è stato», e «Dicono che si scrive per guarire. / Da che dolore? Non c’è più dolore, / solo incertezze / e non si sa a ci chiedere». Rimane il segreto di ogni poesia nell’obbedienza, nel mistero d’amore trafitto e arrossato che, slabbrato, ci descrive.
[1] Carpi A.M., E non si sa a chi chiedere, Marcos Y Marcos, Milano 2020.
[2] Piccini D., Qui le domande le faccio io, in “La Lettura – Corriere della Sera”, 3 maggio 2020.
Carpi A.M., E non si sa a chi chiedere, Marcos Y Marcos, pp. 112, Euro 16.
Carpi A.M., E non si sa a chi chiedere, Marcos Y Marcos, Milano 2020.
Piccini D., Qui le domande le f chiedere
accio io, in “La Lettura – Corriere della Sera”, 3 maggio 2020.