La prima vera raffigurazione che Umberto Saba offre di sé viene costruita attraverso la diretta relazione con D’Annunzio e Gozzano, nonostante le riserve (basti solo pensare alle accuse d’artificio alla poetica d’annunziana) che spesso emergono dalla sua opera, ma è a Carlo Collodi che egli guarda come richiamo alla poesia, in quanto mezzo a cui sia lecito accostare un ritratto di sé pieno. Poesia apparentemente cantabile ma ricolma di un’inquietudine smossa. Triestino come Svevo, nasce nel 1833 da Ugo Poli, d’origine veneziana, e dall’ebrea Rachele Coen. Quando viene alla luce il padre ha già abbandonato la famiglia. Rifiuterà sempre questo padre “assassino” costruito spesso per opposizioni e affinità lungo il suo iter poetico (in questa accezione visto nel rancore materno per l’abbandono) e nel 1928 assume il cognome Saba (“pane”) che riecheggia quello della sua balia “madre di gioia” che riapparirà decisiva durante il suo periodo di cura psicanalitica: Peppa Sabaz, custode di un antico paradiso perduto, di una “ridente casina”: <<Mesto ero e felice, / e in ogni male puro>>. Al fianco della balia, personaggio decisivo e materico, raffiora però l’immagine della madre, spesso ingombrante, implacabile. Giacomo Debenedetti, che a Saba ha posto attenzione in importanti saggi, ha tratteggiato la figura non solo di <<un uomo in fuga>> ma di un escluso, di un isolato e attraverso questa barriera di cupa tragedia egli ricercherà l’origine del suo isolamento, non solo nell’ambiente culturale triestino ma anche nella famiglia disunita e nelle sue origini ebraiche da sempre in contrasto nel suo animo, si pensi al romanzo incompiuto Ernesto, vera e propria liberazione psicologica. La poesia diviene un riparo, una via possibile per scontare la pena di “funesti auspici”, con la consapevolezza di appartenere a un’altra razza, registrata con una lucidità molto vicina a quella di Kafka. Un mondo di chiarezza, di apertura al mondo (<<quante rose per nascondere un abisso>>) in cui traspare, secondo ciò che scrisse Giovanni Giudici: “ un io non mascherato e tremendamente autobiografico che è mosso dalla struggente nostalgia di una vita piena e calda”. Ma è un io diviso, un cuore <<in due scisso>>, da una parte l’espressione di vita attiva( <<il desiderio dolce/ e vano / d’immettere la mia dentro la calda / vita di tutti, dire / parole, fare/ cose che poi ciascuno intende, e sono / come il vino ed il pane, / come i bimbi e le donne,/ valori/ di tutti>>) dall’altro il rilievo di un cantuccio, un’erta per la contemplazione distaccata per preservare la propria identità, nell’attesa vigilante della morte. Un uomo difficile, dunque, che però nel 1905 conosce ‘Lina’ (Carolina Wölfer), dal “rosso scialle il più della mia vita”, sorella, amante, nemica, madre, bambina, dolore ed estasi: <<Una donna! E a scordarla ancor m’aggiro / io per il porto, come un levantino. / Guardo il mare: ha perduto il suo turchino, / e a vuoto il mondo ammiro>> (Trieste e una donna). Diventerà la moglie del Poeta, raccontata nell’esperienza poetica di una rivelazione unica della quotidianità e della difficoltà del rapporto d’amore. Riconosce di averlo richiamato e riportato alla vita, e la descriverà nelle similitudini del mondo animale, <<di tutti / i sereni animali / che avvicinano a Dio>>,che lo riavvicina all’universo in quanto tale. Una preghiera dove la donna-animale diventa intermediaria tra l’uomo e la natura, in pieno accordo con la Vita, proprio perché Dio è l’autenticità originaria, la purezza senza contraffazione col mondo e la società. Saba stesso parla di una scoperta delle identità tra la giovane donna con la quale viveva e gli animali della campagna dove abitava in quel periodo. Trieste con la sua grazia scontrosa, le vie strette e oscure, il calcio (metafora dell’eroico e dell’individuazione comune), le navi e i velieri ormeggiati, gli odori, la folla, la prostituta e il marinaio. Scandaglio nella realtà dell’essere, dove le gerarchie fra le figure e le immagini avvengono nell’interiorità, creazioni di un teatro e di uno spettacolo d’altrove: <<Credevo sia dolce sognare./ Ma il sogno è uno specchio, che intero/ mi rende che sa smascherare/ l’intimo vero. / Che vale che il giorno mi taccia / qualcosa, e a me stesso mi celi?/ Poi sogno, e mi vedo di faccia/ senza quei veli>>. “Psicanalitico prima della psicanalisi”, direbbe Gianfranco Contini. Scrive Alessandro Cinquegrani: “La solitudine del proprio dolore è per il poeta un’imprescindibile necessità dell’anima, un fin troppo noto segreto che non può né deve spartire coi suoi famigliari” (come testimonia Città Vecchia). Nelle figure femminili, sempre un po’ancillari, spicca la figlia Linuccia, paragonata alla schiuma che <<biancheggia>> sulle onde, all’ <<azzurra>> scia di fumo in mano al vento, alla nube del <<chiaro cielo; / e ad altre cose leggere e vaganti>>. Questa religione non appaga la sete del cuore, un peregrinare mosso dall’ansia di infinito e l’angosciosa ricerca di un porto inesistente, senza luce di una meta: <<Il porto accende ad altri i suoi lumi; me al largo/ sospinge ancora il non domato spirito,/ e della vita il doloroso amore>>. Sillabazione della solitudine e ricerca di una consapevolezza limpida di poesia (“romanzetto psicologico” definiva il suo Canzoniere) che possa offrire degli strumenti auto interpretativi, facendo avvertire all’umanità il suo angustiato tormento, come punto di partenza per operare un’anamnesi e una rinascita. Nell’Ultima delle Sei poesie della vecchiaia, Saba guarda il cane che adorato adora la sua donna, ma egli da sempre povero cane randagio che mai appartenne a qualcuno o qualcosa…<< Verrebbe il sonno come l’altre notti,/ s’insinua già tra i miei pensieri. /Allora,/
come una lavandaia, un panno, torce/ la nuova angoscia del mio cuore. Vorrei/ gridare, ma non posso. La tortura,/ che si soffre una volta, soffro muto.// Ahi, quello che ho perduto so io solo.