<<Anni fa scrissi un racconto su mia madre, intitolato La sionista castrante>>. Questa celebre battuta, pronunciata da Isaac Singer, protagonista di Manhattan, è frutto del genio comico di Woody Allen. Pur sembrando una battuta insignificante ai fini del film o del personaggio, riveste una grande importanza perché delinea il carattere di Isaac Davis, un ebreo sessualmente disinibito ma pieno di incertezze causate probabilmente dalla rigida educazione impartitagli dalla madre. E’ possibile cogliere un nesso tra il personaggio creato da Woody Allen e il celebre romanzo di Philip Roth, Lamento di Portnoy (pubblicato in Italia da Einaudi), romanzo che ha reso celebre lo scrittore di Newark. Pubblicato nel 1967, anno culturalmente florido sia in campo letterario che musicale, Portnoy’s Complaint è il tipico romanzo scandaloso (così fu definito a suo tempo) destinato a fare scalpore sia per le tematiche trattate che per il linguaggio disinibito ed esplicito. Alexander Portnoy, protagonista monologante, è un geniale e logorroico ebreo ossessionato dal sesso. Il sesso è il perno intorno al quale ruota la sua vita. Tuttavia egli non riceve alcuna gratificazione nei rapporti sessuali, né riesce a costruire una relazione che possa definirsi stabile. Quella di Alexander Portnoy è una sessualità ossessiva e senza limiti, una continua ricerca che lo trascina verso le pratiche più estreme e immorali e che si traduce in uno schiacciante senso di colpa unito al timore di dover espiare in qualche modo i propri <<peccati>>. Gran parte dei suoi comportamenti sono il frutto del legame instaurato con la madre in tenera età. Emblematico in tal senso è il titolo del primo paragrafo, <<Il personaggio più indimenticabile che ho conosciuto>>, riferito non a caso alla madre. <<Mi era così profondamente radicata nella coscienza, che penso di aver creduto per tutto il primo anno scolastico che ognuna delle mie insegnanti fosse mia madre travestita>>. Con queste parole Alex apre il suo monologo-fiume dallo psichiatra, raccontando la personale visione della madre. Il discorso è ironico, uno sfogo più divertito che rabbioso che cresce gradualmente d’intensità, pagina dopo pagina, giungendo alle soglie dell’invettiva. L’autore racconta i passi della sua educazione, un percorso, dal suo punto di vista, segnato da una raffica di frustranti divieti e regole minuziose. Quella di Alex è perfetta vita di un bambino dotato di grande intelligenza, costretto a subire il controllo asfissiante di sua madre, una vera e propria <<sionista castrante>>, e l’influenza di un certo ambiente ebraico-americano del dopoguerra, che appare sempre pronto ad esaltare la sua presunta superiorità etica nei confronti dell’intera umanità. E’ così che il piccolo Alex comincia a temere le conseguenze delle proprie azioni, vivendo un contrasto interno composto da tensioni di sincero altruismo e pulsioni sessuali a dir poco sfrenate. Il “perfetto bambino ebreo” comincia a sfogare le sue frustrazioni e la sua voglia d’autonomia nell’autoerotismo, in altre parole le <<seghe>> (termine che da anche il titolo ad un esilarante paragrafo), una pratica che assurge gradualmente ad interesse primario e che lo porterà, in età adulta, da uomo di successo, a vivere storie tormentate con ragazze rigorosamente non ebree, senza sosta e senza pace, come a voler cercare una via d’uscita dalla sua vita sionista fino al midollo.
In questo romanzo, Philip Roth utilizza un linguaggio sempre sospeso fra il disperato e l’irriverente, presente anche in capolavori successivi come Il Teatro di Sabbath. Egli se ne serve per descrivere e criticare un mondo che conosce bene e di cui è parte, un po’ come Woody Allen ha fatto nel cinema qualche anno dopo.
<<Questa è la mia vita, la mia unica vita, e la sto vivendo da protagonista di una barzelletta ebraica>>. In questo lamento c’è il senso del romanzo, una satira sull’ebraismo e le sue tradizioni, uno sfogo divertente e a tratti amaro su un insanabile conflitto interiore, alla ricerca incessante di una normalità che per Alexander Portnoy si presenta come un miraggio.