La densità poetica di William Butler Yeats (1865-1935) è densità di terra e spirito che batte nell’eroica fierezza del suo popolo, che diventa io, nelle fenditure e nella materia del reale.
È con Yeats, infatti, che l’Irlanda conosce la freschezza rinnovata di una lingua pura e a sé stante, di una nuova ricchezza mitologica.
Anche nella sua propulsione simbolica Yeats cela un tormento di luce, una freschezza dolce e dura che perdura, una lirica che diventa mondo.
Ed ecco che Sligo, porto d’anima nelle giovinezze verdi di mare e prateria, Knocknarea e Ben Bulben, sono il centro di un moto lirico spaziale, passaggio d’anima come coltre.
I suoi primi poemi, come The Wanderings of Oisin o la sequenza The rose, sono un’erranza mitologica in una tradizione che si rinnova, in una identità che richiama la sua appartenenza alla terra che germoglia il cielo.
Yeats fa della mitologia un ponte di dramma e di eroismo, che innalza l’uomo ai colori della sua natura, alla sua visione luminosa e ‘mistico-tecnica’.
L’incontro con Maud Gonne, giovane ereditiera consacrata al movimento nazionalista irlandese, è uno spavento di tensioni e rifiuti. Le dedicherà Gli uccelli bianchi, che sono la sorgente di luce di un’unione immortale e perenne: «… il suo colorito era luminoso come quello di un fiore di melo attraverso il quale traspaia la luce. Mi ricordo che quel giorno si teneva vicina a un mazzo di quei fiori, presso la finestra … Passarono degli anni prima che potessi scorgere ciò che conteneva l’anima rivestita di tanta bellezza e di tanta vitalità».
Sarà però Lady Augusta Gregory – che lo ospiterà a Coole Park presso Galway- a darle i suoi bagliori di vita e letteratura, recando nel poeta tutta la nobiltà della terra e i suoi valori immutabili.
The Wild Swans at Coole è il suo canto lirico più profondo e vitale. I cigni, come creature apollinee, si uniscono alla cangiante espressione di aria e acqua, erranti come crepuscoli di rive, «passione o conquista, dove che sia/ l’erranza, sempre li accompagna».
La terra discosta, cantata in L’isola del lago d’Innisfree, territorio di api, care alle muse, è il luogo di una indecifrabilità simbolica che pervade l’essere in ogni forma.
I cigni, come l’aviere che prevede la sua morte, o il nuoto, sono congiunzioni di vita e morte, ampi gesti d’eterno, danza del particolare verso l’universale. Così come la rosa è il simbolo che congiunge alterità e visoni care, potenza di raggiungimenti e cuore d’Irlanda.
La bellezza incarnata si confonde con la sofferenza del mondo, ma nell’irrequietezza umana la profondità del tempo-eternità ci raggiunge con i suoi segni, le sue lande fiorite con «lo strascico del manto di rose rosse orlato» .
Scrive Yeats: «Tutti i suoni, tutti i colori, tutte le forme… richiamano fra noi certi poteri incorporei le cui orme sui nostri cuori chiamiamo emozioni; e quando il suono, il colore e la forma si trovano in una relazione musicale l’uno con l’altro, divengono come se fossero un suono, un colore, una forma unica, ed evocano un’emozione che nasce dalle loro evocazioni distinte pur essendo una sola emozione».
La partita si gioca sull’Unità dell’Essere, sulle sue manifestazioni, sulle sue forme.
Il pescatore vestito di tweed del Connemara, che lancia la sua lenza – come il poeta con i suoi versi- è l’icona di un dialogo tra il proprio spazio e tempo e l’oltre di ogni delimitazione: «e gridai: “Prima ch’io sia / vecchio, gli avrò composto/ un solo canto, come l’alba/, forse, freddo e intenso.».
È nella compartecipazione con la propria terra l’acquiescente verbo di una impronta eterna, che raccoglie il nostro fondo: «Colui che lasciò la Sua impronta/ Sui cieli è un daino tenero; come avrebbe potuto altrimenti, / Pensare una creatura così triste e soave, tenera come me?/ Colui che creò l’erba e i vermi, e rese le mie piume/ Così gaie, Egli è un pavone immenso, e per tutta la notte agita su di noi/ La sua languida coda, accesa da miriadi di punti luminosi».
L’orgoglio per la propria terra non è un miraggio estetico o una fusione di gesti ovvi, è una comunione sacra di tradizione (Oisin, Finn) e specchio, leggenda e passaggi di tempo, in una nettezza di contorni fermi che rievocano altezze: «Vieni, fanciullo umano!/ Vieni all’acque e nella landa/ Con una fata, mano nella mano, / Perché nel mondo vi sono più lacrime/ di quante tu non potrai mai conoscere».
Nella landa della sua anima, somigliante alla landa della sua terra, vive il contrasto tra oscurità e luce, a cui si vota l’anima poetica, il suo poderoso emblema, il sangue di una lotta tra passato e presente.
Dentro questa tempesta lirica di luce, la scrittura etica dell’universo si nutre della densità lirica, i cerchi infranti, il ponte accesso della vocazione del richiamo, dove la trama visiva misura il suo esilio, la sua spirale.
Poesia di rivelazione e di visione, quindi, che intona la familiarità del suo germoglio, la magia del simbolo per creare ascendenze, l’intensità che invoca la libertà come cardine.
La sua chiarezza conosce la vertigine della caduta, quasi che la sua fantasia e la sua immaginazione perdurino nell’istante che si celebra, in ogni momento, oltre la giovinezza e il dolore: «Io sono lieto di poterla vivere/ e un’altra volta e un’altra volta ancora, se la vita/ Significa tuffarsi fra i ranocchi/ Dello stagno di un cieco, di un cieco che urta/ Altri ciechi; o in quello stagno di tutti più fecondo, / Nella follia che l’uomo compie, o deve sopportare…».
La rinascita, la purificazione, lo scorrere aperto delle acque con i rovesciamenti e le aperture, sono percorsi dai fiotti della vita e della resurrezione, della loro gioia tragica.
La magnifica vitalità di Sligo ha nella condensazione di promessa e rarefazione, il suo tumulto vitale che si apre all’esistenza, il precipizio di un’eco che segue la sua misura, tra gli splendori della terra e il tempio nascosto del dolore.