La poesia di Salvatore di Giacomo (1860-1934) è una coltre di trasparenza. Quando ad appena vent’anni scrisse i suoi Racconti fantastici, l’orizzonte acceso del suo gesto, dal vago sapore Biedermeier che risale fino a Hoffmann o Poe, tra annosi duelli e sfregi di malavita, colpiva la sensibilità visuale del costume del popolo e della borghesia dell’epoca, con la ricchezza di un materiale vivo, teatrale, vasto.
La scelta di porre il dialetto napoletano, come voce e riparo della sua gamma espressiva, rappresentò il colore della sua chiara materia. È quello strumento che compone il suo paesaggio, che più si avvicina all’eterna commedia umana e alle sue tinte: «Come potrei affermare ancora una volta, contro l’opinione generale, che dal popolo, dal popolo basso, dalla plebe infine non è mai rampollata di getto, con ugual metro e con pulita forma, la canzone della quale non si ritrova l‘autore? … Il popolo – è vero – può creare e inventare e dar volo alla sua produzione fantasiosa, ma non è il popolo quello che scrive e stampa: qualcuno sta tra tipografo e plebe, le più volte uno sconosciuto ed umile rifacitore e rimpastatore, talvolta pur chi sa modellare nella grossolana abbozzatura di un canto o narrativo o puramente e semplicemente lirico un’opera poetica perfetta ».
Anche laddove, come accade nella prosa delle novelle e dei bozzetti, l’italiano impagina la sua espressione, la lingua si colora di nitidezza, di disinvoltura scenica e di germoglio racchiuso di esperienza e vita. Le immagini, i ritratti delineati assurgono a un’attitudine composita. Ma è nella poesia che la sua forza si libera.
In essa il canto che tocca vicoli, conventi, carceri, ospedali, le «ortensie» pure e il «maggio» afferma il suo incantesimo di rarità, come ha sottolineato Karl Vossler: «Marzo: nu poco chiove/ e n’ato ppoco stracqua: / torna a chiovere, schiove,/ ride ‘o sole cull’acqua».
La lingua di Di Giacomo non appartiene a un poeta di provincia. È il cuore che si ferma sulle campiture della vita, con le sue sillabe che fioriscono nella unicità di un passo lieve e arioso di popolo, come, ad esempio, la notte smarrita di Irma, “nomme furastiero: ma se chiamma Peppenella”, prostituta scacciata dalla locanda in mezzo alla strada, che cerca invano per tutta la notte clienti per dormire e, al sorgere del mattino, mangia la sua fresella bagnata nell’acqua, dormendo involta in terra.
L’incentivo delle nostalgie settecentesche sentono, specie, nei suoi testi musicati, il volto di una lirica che unisce il singolo all’umanità, la gaiezza rumorosa e dolorosa napoletana alla ferita dell’umano, l’anima favolosa e infantile all’acme maturo.
Quando egli dipinge la vita di miseria nei bassi di Napoli o nelle case di periferia contadine, sembra che il destino delle figure, in particolare femminili, sia come segnato, da perdizione, ferita, prigionia. Ma non è solo un disperato scontento di miseria, è il taglio della sua epoca, attraversata da una crisi di profondo smarrimento e di sconvolgimento sociale.
È lo struggimento, la nostalgia, la malinconia tutta napoletana di un napoletano la sua pittura finissima, l’ambiente di una fisionomia vivida, il cenno della misura del vivere: «Ncopp’ a n’asteculillo / luce nu piezz’ argiento,/ e nu suspiro ‘e viento/ passa pe ffronte a mme. // Dimme, viento, chi luce/ llà ncoppa e s’annasconne?/ E ‘o vento mme risponne: «Nun vide? È ‘a luna, oi nì!»». Lo struggimento è di fronte a una presenza viva, che appare improvvisa e lucente. Non un esercizio, ma l’attestazione di qualcosa che è beatitudine e ferita, nome delle cose, finestra sul cielo.
L’anima di Di Giacomo non conosce scorciatoie, anzi sulla soglia del reale, l’intima figura degli atti diviene l’impressione di una intimità che ricorda derivazioni, affinità epidermiche, sottile predilezione d’interno. La passione sensuale, la voce intensa è come quei vicoli, è il fuoco vivo che avvampa e prorompe. Forse un oggetto, forse un’intima carezza di ciò che appartiene a chi si ama, anche quando sembra un docile dispetto volubile, come in Marzo o ‘E ttrezze e Carulina: « E tu specchio addó’ lùceno/ chill’uocchie addó’ cantanno/ ride e se ‘mmira, appánnete/ quanno se sta ammiranno…». La sua nostalgia ama la dolcezza del chiaroscuro, il ricordo perduto e trascorso nell’inseguimento mite e fragile alla donna, bene amato, sostanza di stupore e errante, tanto vicino alla figura materna e coltre di vuoto incolmabile, che, anche nella bellezza del maggio odoroso, si sospende, tocca il cuore di una strada conquistata dal pianoforte: « Dio, quanta stelle cielo!/ Che luna! E c’aria doce!/ Quanto na bella voce/ Vurria sentì cantà!//Ma solitario e lento/ More ‘o mutivo antico/; se fa cchiù cupo o vico/ dint’a all’oscurità.// Ll’anema mia surtanto/ rummane a sta funesta./Aspetta ancora. E resta,/ ncantannose, a penzà.».
C’è nella poesia di Salvatore di Giacomo una sorta di inafferrabilità, quasi sacrificale. Una inafferrabilità di sguardo e di prospettiva che solo apparentemente sfugge alla limpidezza.
Un attimo lungo, interminabile che non è solo sospensione, nitidezza d’amore e d’inseguimento, ma tormento, gelosia, invocazione e passione. Le Carulì, le Nannì, le Carmè, le Marì, le Adelà, le Rusì, le Catarì, sono il baluginio di un avvenimento che abita le cromature del cuore che, anche quando disegnano figure più estreme, come la “femmena”Assunta Spina, sembrano attestarsi in un doppio movimento di splendore e miseria; colei che sbaglia e tradisce, abbandonata, riesce a riscattarsi, assumendosi la responsabilità di un delitto che non ha mai commesso. Nelle bellissime Lettere a Elisa, sua futura moglie, l’amore conosce il paradigma e le rapide dell’esistere. Esse contengono il suo squarcio sospeso sulle cose: un ritratto, un immagine, una deviazione, un abbandono d’incanto. C’è sempre quella limpidezza aggrappata alla grazia che ama distendersi sui rumori della città, del vociare delle luci e delle persone, delle situazioni agli angoli e, infine, del gesto singolo. Una sospensione silente, come gli occhi di chi cerca di allontanare una farfalla che rischia di bruciarsi le ali vicino la fiamma di una candela, per non distruggersi, poiché il suo destino è toccare l’aria odorosa, appartenerle. Lo scenario fiabesco è uno dei tratti di realtà di cui egli si serve per sostare sulla fedeltà delle cose, sulla loro scorza lucente, sulle dissonanze.
Quasi ritratto, la realtà è quello strumento di conoscenza e di tensione, in cui l’avvenimento della vita proclama la bellezza e la potenza di una distanza luminosa, come egli stesso descrisse, riferendosi ai pittori napoletani del suo tempo: «Né – si dica che quelli artisti rimasero, nella contemplazione della natura, solamente oggettivi: un qualunque paesaggio è sempre uno stato dell’anima, ogni filo d’erba ha la sua storia. E attraverso le ardite forme veristiche di quella poesia tonica e fortificante, forse è passata, per raggiungere vette più sublimi, la poesia morelliana, penetrata di terrore e di pietà».Napoli è l’anima che invade gli occhi, il balcone da cui conoscere il respiro del mondo, racchiuso in un corpo di donna o in un accostamento di mare e terra che sempre ricominciano e terminano nel fondo di pagina, e sempre domandano il mistero dell’esistenza, in cui suoni e profumi divengono veicolo di una dimensione di stupore più ampia, in cui uomo e natura si fondono insieme: «Chi dice ca li stelle so lucente/ nun sape l’uocchie ca tu tiene nfronte./ Sti doje stelle li saccio io sulamente./ dint’a lu core ne tengo li ponte./ Chi dice ca li stelle so lucente?// Scetate, Carulì, ca l’aria è doce./ quanno maie tanto tiempo aggio aspettato? P’accompagnà li suone cu la voce/ stasera na chitarra aggio portato./ Scetate, Carulì, ca l’aria è doce».