La lenta penetrazione di Inger Christensen (1935-2009) nel tessuto connettivo poetico del nostro paese, solo di recente, ha avuto il giusto spazio che merita.
Dai tempi delle ultimità cosmiche e creaturali di Alfabeto, edito dalla pisana Giardini nel 1987 e oramai irreperibile, dal 2012, in successione, sono stati pubblicati, per i tipi Kolibris di Bologna, Scale d’acqua e Lettera in aprile e ora, La valle delle farfalle, tradotto e curato da Bruno Berni, edito da Donzelli.
Membro, nel 1978, dell’Accademia reale danese, più volte candidata al Nobel, la poetessa danese, tradotta e studiata in Gran Bretagna, in Germania e negli Stati Uniti, ha solcato, con sfaldata pienezza nel periodo del verso, nella numinosa didascalia della datità, appropriandosi della materica fluidità del tempo e della liquidità sbilenca dell’istante, respirato e reso denso dalla percezione sfumata dello sguardo, dove la correlazione tra gli oggetti e l’io confluiscono nel contatto comunicante e suturato con le cose, riconosciute e abbandonate, in una vibrante scrittura lirica.
Roberto Galaverni sostiene che in Inger Christensen, come avviene in Scale d’acqua, dove l’umbratile sequenza di cinque fontane romane compongono la scorza dell’ascolto e della vita che si svolge, la scena sembra un puntuto inabissamento, in cui «denotazione, fenomenologia, precisione, grammatica combinatoria: a tutta prima potrebbero scambiarsi persino per un esercizio di stile alla Queneau. E invece questa poesia sfocia nell’esatto opposto, un piccolo poema di tutte le cose. «Comunico che il sole e l’acqua e la vernice e la luce splendono e cadono e scrosciano e vengono riflessi». Questa lingua vigilantissima è percorsa da una specie di esaltazione elettrica, che finisce di fatto per annullare un discrimine netto tra misura e fluidità espressiva. Appassionata di matematica, la Christensen ha però guardato più di tutto ai grandi autori del Romanticismo tedesco, a cui ha anche dedicato saggi eccellenti. Come ogni sperimentalismo che si rispetti, la sua poesia non è mai soltanto un gioco, ma è legata a doppio filo all’efficacia del dire, alla coscienza, alla realtà della visione».
Il riflesso della percezione conosce l’esattezza di ciò che affiora e si comunica, fa splendere le circostanze, cromandole in un unico grande testo mosaicato, dove il particolare è iniezione di presente e versatile fluidità che registra gli attimi, facendoli affiorare in una lenta successione di tempo assente: «La fontana di Piazza Nicosia fu costruita nel 1572. Giacomo della Porta era l’architetto alla moda dell’epoca. / Piazza Nicosia non è proprio una piazza. È via di Monte Brianzo che si allarga in direzione nordovest. / Io siedo a un tavolo con coperti e bicchieri./ Cominciano a servire solo all’una. / Una Jaguar rossa entra nella piazza. Scompare per via Leccosa. / Il sole splende. L’acqua riflette la luce. La vernice della Jaguar rossa rifletteva la luce quando è passata. / La fontana di piazza Colonna fu scolpita in marmo da Rosso dei Rosso nel 1575. Lui veniva da Firenze. / Piazza Colonna è dominata da una colonna (42 m) con un bassorilievo a spirale che racconta le campagne vittoriose di Marco Aurelio. / Io siedo a un tavolo con un cappuccino caldo un bicchiere e una caraffa d’acqua. / Una Jaguar rossa si è fermata sul passaggio pedonale. Il semaforo cambia da Alt ad Avanti. La gente ha l’aria irritata. / Il sole splende. La vernice della Jaguar rossa riflette la luce. L’acqua non si vede a causa delle macchine».
Altrove l’attenzione di Inger si svolge nel romanzo ambientato a Mantova nella rinascimentale camera picta del Mantegna, in La stanza dipinta (1976), appunto, o in Lettera in aprile, dove le liriche, nate da un viaggio al Sud con il figlio, sfogliano, come scrive Bruno Berni, «il contrasto tra la visione del mondo dell’adulto disilluso e la curiosità del bambino», trasformando «il viaggio esteriore in un viaggio nell’anima, e la spontaneità e lo stupore con cui il piccolo affronta la realtà – che si rispecchiano nella concisione dei versi – portano l’io poetico a scoprire e ricreare il mondo circostante con la produzione poetica».
Si tratta, quindi, di ricostituire la salvezza dello stupore o, in definitiva di essere sottomessi alla scomparsa della lingua che ripete il quotidiano arrivo della cura ripetuta: «Una cura / come quella necessaria / per ripetere il mondo. / Questo quotidiano arrivo / in ogni genere di travestimento / di tutto ciò che è / palese, / casto e sessuato / a un tempo. / Il grazioso / sogno del mostro / di muoversi / tra le carezze / degli uomini. / Il bacio / sotto le succose / volte / dove i semi / somigliano / a un paesaggio del cervello. / E se non sapessimo che non è così, / faremmo una passeggiata / in noi stessi / e ci incontreremmo lì».
Scrive, infatti, nella postfazione Elizabeth Friis: «La poesia indica in tal modo le leggi dell’universo in ciò che è molto vicino – un’indicazione messa in atto anche dall’identificazione con la prospettiva del bambino che gioca – e il meraviglioso insito in tale esperienza. Apre una percezione quotidiana verso il cosmo e in tal modo aggiunge alla quotidianità una nuova dimensione rappresentando il mondo com’è, ma come normalmente non viene percepito, e da questo segue una nuova esperienza del nostro essere una parte del labirinto. Nel bel mezzo dell’«aprile del dolore» la porta verso il mondo è spalancata».
La polifonia del reale, che unisce ponderosità e evaporabilità figurale, si afferma in La valle delle farfalle (a cura di Bruno Berni, Donzelli, pp. 63, Euro 14,00), destando, come argomenta Roberto Galaverni «[…] la relazione stessa tra il pensiero e l’immediatezza delle percezioni, tra lingua e mondo, parole e farfalle, suono e colore […], carte e ali. E la verità che il discorso poetico, proprio grazie alla sua «illusione», riesce a fare affiorare, è che leggerezza e gravità, libertà e costrizione, naturalezza e artificio, contenuto e forma, realtà e sogno, scivolano l’uno nell’altra, passano e trapassano dalla vita alla morte proprio come le farfalle, proprio come le poesie».
Questo trapassato epicentro, vissuto anche nel limite della morte e del dolore, costringe la parola a ricreare e ricostruire la nominazione del mondo, a percorrerne i prodigi del suo farsi e sfarsi, in una partitura che acclama la visione sospesa di feritoia e lucentezza: «Salgono, le farfalle del pianeta, / come pigmento dal calor del suolo, / cinabro, ocra, oro e giallo creta, / di chimici elementi emerso stuolo. / È questo batter d’ali un’adunata / di particelle di luce in un miraggio? / È dell’infanzia l’estate già sognata / rifratta come in differito raggio? / No, è l’angelo di luce che dipinge / se stesso come apollo e limenite, / come papilio, macaone e sfinge. / La vedo con la mente mia malsana, / tal piume da piumino d’afa uscite / a Brajčino nell’aria meridiana».
La trasformazione memoriale genera una templata appropriazione vitale, dove «la vanessa nel suo bozzo giace, / mentre da larva di brame smodate / muta in ciò che intelletto chiamar piace, / sì porpora di vita le sia meta / trarre, come farfalle d’altra estate, / dall’aspra sotterranea segreta».
La grande impalcatura di Inger Christensen riformula una sequenza di grido e descrizione, profumo di piane e fioritura, volo, limite e ferialità cromatica, come intrecciata simmetria, armonia e sofferenza, legate a un protruso lampo d’amore e di bellezza spaventata: «come in limpida pace del colore, / lavanda, nero, porpora, marrone, / cingon precise i covi del dolore, / pur se di breve gioia hanno illusione, / possono con proboscide già avvezza / suggere il mondo, favola illustrata, / con tocco lieve come una carezza / finchè lampo d’amore svanirà, / sol lampi di bellezza spaventata / come argo azzurro volano qua e là».
È un poema che inarca le stagioni e le sue miniature, la fusione elementare dell’io e del tempo, la dinamica del sogno-falena che riporta al ricordo («Che giova la grandissima falena, / con ali come carte della terra, / che solo al sogno di ricordi mena, / che noi baciam come mortal disegno / col gusto del mortal bacio che afferra. / Chi è colui che incanta tal convegno?»), attraverso «una piccola, piccolissima opera mondo che riproduce a livello tematico e nel suo stesso corpo formale il ciclo eterno di morte e rinascita. Ciò che vale al livello dell’osservazione naturale e delle immagini vale anche, senza vera distinzione, per il farsi e disfarsi della lingua, per l’andirivieni tra mondo e finzione a livello espressivo» (Roberto Galaverni).
La scena del mondo diviene, pertanto, visione e prospettiva di sguardo, lanciate nella tonalità del vivente, nella franta limitatezza della finitudine arresa: «Ho visto dell’Aurora il tono paprika, / pallido di savana un grigio alone, / della vanessa l’esodo dall’Africa, la strada dritta verso il settentrione. / Ho visto di selenia l’orlo terso, / i neri bordo in forma a mezzaluna / sulla punta dell’ali d’universo. / E ciò che ho visto non era solo affanno / di sogni che una mente poi accomuna / con sprazzi di quiete e dolce inganno».
Il limite figurale rappresenta il numinoso limine di ciò che resta e si raccoglie nella sperdutezza della parola che compone il suo iato architettonico di realtà e illusione, nulla e vita, amore e morte, mantenendo il disegno sublime delle estati vive: «mia nonna tra gli abbracci del giardino / di fior di nebbia e violaciocca rossa, / mio padre che m’insegna poverino / ogni nome di ciò che strisciar possa, / entran cone me ove tutto esiste solo / su questo lato, tra tutte le farfalle, / dove anche i morti senton l’usignolo / che oscilla coi suoi canti tristemente».
O ancora la nominazione che proclama il suo inseguimento, fondendo fenomeno e parola, fingendosi campaea «per contenere / ogni forma del mondo in una sola»: «È la morte con occhi senza affanno / che vuol veder se stessa in me che come / selvaggio, ingenuo e senza disinganno / seguo l’idea di ciò che vita ha nome. / Perciò la pieride mi fingo con piacere / e fondo insieme fenomeno e parola».
La valle delle farfalle di Inger Christensen sperimenta così il dramma sfacciato del requiem che non si arrende, il suono nutrito del dolore che guarda allo specchio sopravvissuto, dove «si guarda la morte negli occhi / senza piangere / come se fosse una chiara / risposta del tutto comprensibile / ma a domande / che non si osa porre», l’intensità e l’altezza delle carte vuote che vedono le demarcazioni stralunate, le soste attraversate, i respiri che vagano, il grido imprigionato che non si arresta, il giardino del paradiso e il sibilo autunnale degli storni che frusciano attraverso l’aria, dove lotta l’abisso che solleva l’acqua.
CHRISTENSEN I., La valle delle farfalle, a cura di Bruno Berni, Donzelli, Roma 2015, pp. 63, Euro 14,00.