Angoscia esistenziale, tensione verso una propulsione realistica dell’esistenza, scetticismo nei confronti di un sistema di valori propugnati dalla situazione di ‘fascistizzazione’ del paese, crisi della classe borghese, che ha ormai concluso la sua parabola anche nelle tensioni intellettuali, questo delinea la messa a fuoco di Alberto Moravia (1907-1990), al secolo Pincherle.
Ma è “una voragine sul vuoto”, come ha scritto Irene Battaglini. Questa diagnosi spietata e lucida della classe trova già ne Gli indifferenti, uno spaccato di crisi esemplare e una consumazione di umanità, in seno alla società borghese, già di inettitudine e di un disagio con coloriture sfumate e diverse, patite realmente e vissute all’interno del crinale della sua malattia (Moravia si ammalò di tubercolosi ossea) che finì per condizionare la sua tensione di relazione.
Ma l’atroce quadro di un romanzo che spogliava lo stato d’inerzia di una società malsana e malata, che si lascia vivere in un pointillisme di convenzioni e ipocrisie, cerca disperatamente, è il caso di dire, un appiglio oltre il cerchio, un barlume di coscienza che spiani.
Il lasciarsi vivere e la sfrontatezza elusiva di un sogno lontano sono il frutto di un’abdicazione, di un serraglio particolare, Carla o Mariagrazia, personaggi di illusione e ambizione divengono tentativi elusivi di oppressione che vedono raramente una genuina ribellione, come in Leo, nel vuoto di un mondo falso che attanaglia e circonda e che ingurgita i movimenti della realtà.
Moravia dirà ad Enzo Siciliano: «Leggendo di tutto, come leggevo, assorbii la cultura europea, la vissi da malato … Era come se io capissi attraverso la mia malattia tutta l’impossibilità di fondo, l’impossibilità alla vita che la cultura europea esprimeva». Qui, in questa impossibilità di vita autentica si offre il nucleo che irradia la sua visione:«Tutta questa gente – pensò – sa dove va e cosa vuole, ha uno scopo, e per questo si affetta, si tormenta, è triste, allegra, vive; io … io invece nulla … nessuno scopo … se non cammino sto seduto: fa lo stesso».
Un romanzo strutturale che intuisce perfettamente le risorse propulsive del romanzo, che reagisce al fastidio della società e impone situazioni e figure, in una nudità di proscenio e di stile.
Anche il racconto breve risulterà mezzo di divulgazione di registri e vicissitudini, dove perpetrare il distacco irrimediabile tra individuo e realtà e il conseguente straniamento alienante, proteso all’impossibilità di realizzazione all’interno del flusso quotidiano del vivere che genera indifferenza, che, come scrive Eugenio Ragni, è: “ incapacità di reagire dovuta alla coscienza che qualunque azione non porterà mai a un risultat6o d’integrazione con la realtà. L’umanità è dunque un insieme di individui che vegetano ognuno per proprio conto, in solitudine e angoscia personali, tentando accanitamente ma del tutto vanamente – e quasi sempre pagando un tributo di trauma – di costruirsi un nuovo ordine di conoscenza e di vita, ben sapendo di non riuscirvi mai per incapacità congenita di superare la sfasatura verificatasi tra l’artificiosità delle convenzioni etiche e umanistiche stratificatesi nella società, e la nuova, prepotente «naturalità» del mondo”.
Nella vertigine dello spazio lo specchio (Delitto al circolo di tennis) risulta centro di confronto e di maschera, quando la lucida consapevolezza razionale offre gelo sull’articolazione dell’indifferenza e dove conformismo, disprezzo e attenzione impongono fallimenti di figura e abisso di immagini.
I momenti storici (La vita interiore, Il conformista, L’attenzione) vivono di una cupezza individuale e soffiano sull’assurdo di una crisi che investe la trama politico-sociale, come una parabola di agganci falliti.
Anche La romana o La ciociara rappresentano la fine di una incrinatura esistenziale e, come ne La noia, il suo determinismo si accentra nel tono disilluso di un quadro di società, quella neo-capitalistica, che mette in scacco i processi vitali dell’intellettuale e della cultura borghese.
Laddove La ciociara – luogo di spazi di domanda- era caratterizzato dal mito e della sanità istintiva del popolo e soprattutto dalla corale integrazione dell’intellettuale, La noia è la vertigine di un processo di alienazione e di sospensione atarassica, tra integrazione e aspirazione all’autentico che salva e allevia.
La figura di Cecilia, fiore capovolto, (come lo era stato il sentimento di pietà per l’adolescente protagonista di Agostino, dove la messa a fuoco si incentrava sull’irrealtà traumatica, l’esclusione e il sesso come strumento di congiunzione e conoscenza), con il suo grumo di sogni e di misteri, di fughe e non possesso, è il crinale di un rapporto tra segno e oggetto, il sommovimento di una insostenibilità e di una alterità. Contemplarla significa saperla guardare come fine, rinunciandovi.
Anche l’eros di cui è portatrice rappresenta una metafora che si inclina verso l’icona: «Adesso [Cecilia] era completamente nuda; o meglio portava ancora indosso quelle che chiamerei le bardature più intime: il reggicalze sui fianchi, il velo triangolare dello slip sul ventre, le calze sulle gambe. Queste bardature, però, erano ormai tutte sconvolte e sbilenche, come se Cecilia, spogliandosi, avesse tolto loro qualsiasi funzionalità: il velo dello slip appariva gualcito e arrotolato, il reggicalze aveva due delle quattro giarrettiere staccate e pendeva da una parte, obliquo; delle calze una stava su e l’altra ciondolava sotto il ginocchio. Era un disordine donnesco e bellicoso; il quale discordava curiosamente con l’innocenza infantile e inespressiva del volto. Veramente, Cecilia pareva sempre duplice, ossia donna e bambina nello stesso tempo; e non soltanto nel corpo ma anche nell’espressione e nei gesti. [...] Adolescente dalla vita in su, donna dalla vita in giù, Cecilia suggeriva un po’ l’idea di quei mostri decorativi che sono dipinti negli affreschi antichi: specie di sfingi o arpie, dal busto impubere innestato, con effetto grottesco, in un ventre e due gambe possenti.».
L’a-socialità dell’arte trova la ruvidezza nell’intento dogmatico di una comunicazione franta, che misura la sua tensione solo nella visio letteraria e in essa raggiunge le soglie del mistero dell’essere, la propagazione religiosa di una voragine, appunto, che riunisce le vicissitudini slegate dell’esistere: «esiste solo la vita letteraria! L’unica cosa in cui credo è la letteratura. Non so se credo in Dio. Non ci ho mai pensato seriamente».
Ha scritto Indro Montanelli. “Era il carattere inquieto, di eterno fuggiasco anche da se stesso, che lo predisponeva alla scontentezza”.
La quotidianità frenetica e nervosa ha eliminato la dimensione dell’incontro, che arreca senso, che possa altrimenti squarciare la patina grigiastra della ripetizione e dell’assenza di significato, al passo che, dignitosamente, ogni giorno si reclama.