Si apre con un esergo di Mario Luzi, tratto da Sotto specie umana (1999), («Di che è mancanza questa mancanza, / cuore, / che a un tratto ne sei pieno? / Di che?»), il nuovo libro di Anita Piscazzi (1973), Alba che non so, edito da CartaCanta, vincitore del Premio InediTo 2017, a cura di Davide Rondoni, che lo presenta così:
«Libro del disinganno e del patire, e pur vivacissimo d’invenzione e lingua come d’un segreto fuoco di gioia. Un barocco tragico e ardente, una addolorata sincera discesa nel proprio ìnfero. Vi è una forza nelle poesie di Anita Piscazzi che lascia a volte tramortiti e non solo per libertà di composizione, ma per la nuda sincerità mai disgiunta da una ricerca del ritmo e del vestito di parole giusti per dirla. Pronunciare le parole di una infiammata e dolente femminilità, conoscere le slogature e le ferite, e anche le cuciture, è il compito del libro. Sulla tastiera di questo pianoforte di amore e dolore si sentono le note tipiche di un Sud sempre antico e sempre nuovo. E in mezzo a tanti riferimenti colti la voce antica e bambina di una specie di sperdutissima preghiera».
Il principio delle cose, la scaturigine dell’essere e il suo pulsare, l’ombra numinosa, la mancanza come genesi di ciò che germina, di ciò che si fa domanda pone l’inizio della vita verso un tu che dia compimento, ricerca e spessore di sé senza fine:
«Ecco che il cuore manca, il cuore è mancante di qualcosa e si domanda che cosa. La mancanza, tuttavia, non è un meno ma un più che mette in moto il desiderio folle e incurabile di cercare l’altro. È il delirio di esserci. L’uomo che non si accorge di essere mancante, dello spessore del suo sé, dellagrandezza di ciò che è, è un uomo appiattito. Il desiderio dell’altro muove la ricerca del vero, la soluzione al vuoto, come tra due innamorati che si incontrano dopo una lontananza: non si chiede all’amato cosa ci ha portato. La domanda è sempre la stessa: «Ti sono mancato? La mia assenza è stata per te una presenza?» (p.9).
La poesia di Anita Piscazzi insegue il punto mancante per aggregazione e per essenzialità, come invito ultimo e discreto di un’urgenza inquieta che, da una parte, trafigge nella affettiva indigenza, dall’altra esprime tutta la sua germinazione che accresce le linee dell’esistente.
Forse un principio di attesa, un “di là” di grazia e sogno o un limite sorgivo: «Dovrei rinascere per raggiungerti / incontrarti nelle piazze tenerti la testa / prima che rimescoli il vuoto inventare / di tempo in tempo, il sogno / perché nessuno sappia / perché nessuno capisca / Il torpore di te nel corpo al limitare / della luce sotto la calma del mattino / quanto poco fuoco / Io seduta in un treno in sosta infinita / e tu di fretta in un tram verso aprile».
La mancanza unisce l’esile ed esiziale filo che lega la realtà alla sua concrezione di mondo e ai detriti ma anche alla dolce rinascita dell’alba, quando sembra che tutto ciò che è piano piano possa accrescersi, mescolarsi per osmosi, unirsi in un dettaglio di dettagli.
Tale accrescimento, però, affronta la perdita e il limite, come silenzio di sillabe racchiuse, ne percepisce tutta la vastità del vuoto, del silenzio e del tremore del suolo («Il sole sa distruggere se lo fissi / non ho capito il vuoto di te, trema il suolo. / Non dirmi niente. / Leggi. Come l’ultima volta / quando sei partito. Sarò qui a toccarti / la mano mentre fuori il temporale sorprende. / tutto se ne va si mette in viaggio / ma tu non voltarti se passa una rondine»): «Gli dei non sanno / che ho raccolto miele davanti / agli scalini / agli urli dei cortili / dietro ai santi di gesso / tra la dominante che stona / alle strade che finiscono / nell’odore forte di vino sui carri. / Il sogno di Elena è qui / dove il solstizio d’inverno / si riscalda a bere sui pontili / puntando alla stella del sud / così vinta / così prigioniera».
Una guerra di fiati corti, la più stretta delle porte, la segretezza fragile del tempo: «Per la più stretta delle tue porte / io entro dove il morire nostro sorge / a quel verbo / che non riusciamo più a coniugare / più forte dei nostri difetti / più crudo di ogni ombra / e di ogni passato visibile che immidolla / il corpo precipita in dissapori». Sfidare e scontrarsi con l’assenza significa toccare la vertigine non opaca dell’essere, dove dentro quel bisogno di respira tutto ciò che non si coniuga, ogni ombra di giorno, ogni demone che viene a visitare: «C’è una certa ora quella dove il giorno / è più lieve, dove tutto è permesso / è l’ora ultima e benedetta. / Quella che guarda in faccia / il demone dritto negli occhi».
Le cose depositate emergono in questa indocile penuria, come da un riposo o forse dalla polvere di un passato indicibile di figure, profili, incontri e mani di cenere: «Benedetta sia la notte e le sue sorelle / camminerò nei loro venti ebbra di bruma / ma che suono hanno le alte sfere? / Domani avremo mai di cenere / e sapremo di carbonio rauco e papaveri».
O ancora la luce di cassetti e segreti, strade e notti che fremono. Nel buio si aprono i solchi disfatti, le arie di ottobre che non muoiono. Rimangono scheletri, arterie di inchiostro quando la morte indossa il narciso e la fuliggine dei tempi, quando tutto si nasconde per rivelarsi e rende tutto distinto, nell’attimo in cui salva il silenzio o gli oceani che annusano: «domani tutto sarà liquido / la fiamma, l’umana commedia, il / mio pianoforte muto , l’incurabile verso, / la corsa del tempo. / Solo oceani ad annusarci / senza polmoni, antichissimo incanto, / benedetto dalla stretta unicità / null’altro mai più».
E poi ancora il respiro dell’eco, il tempo della pelle, la parola finale prima del ricordo, i fianchi che si mescolano e l’inganno percorso «forte come il sole».
È la densità dell’istante che si rivela e si porge in un tempo facile, l’attraversamento dell’universo del cuore in una sala di attesa, quando la bellezza già stata «può essere ancora», per fendere una frattura di morte e resurrezione, e un’altezza di alba («Ora solo cieli scorrono bevo aria»):
«avrò la bocca sulla tua immagine, cassetti / segreti nella pancia e nelle cosce innumerevoli / strade che portano al tuo delirio appuntito / dormiremo una notte infinita / perché di notte il diavolo ricurvo / rovista nella facoltà dei suoi averi. / È polvere. Sbatte. Ha mille / piedi nel passato e neanche un occhio / nell’ora che tremo e invoco gli dei. / Dopo aver lasciato il tuo profilo ingrossato / sui corpi nuovi, di te non ho altro / che il nostro primo incontro».
I pezzi di un mosaico che chiede sempre di essere nascita, che si riporta all’energia iniziale e alla vita, al suo pulsare nel «quasi niente nell’aria del mondo», per ricercare il «ventoso spazio», oltre quest’attimo di fertilità splendente: «Stesse facce della luna / legate agli sbalzi dei fondali / quanto poco sappiamo del mondo. / Ripenso all’energia iniziale e a quel / fuoco divampato sul vuoto più alto dei fiori. / Sono nata sull’Adriatico dove il vento / è capace di frantumare una roccia / e di scegliere una rotta non mi / importa quale né mi importa di ieri».
Nella ferita e nello strappo, nella lacerazione contusa dei segni dell’ostinato niente, l’ascolto obbediente permette di penetrare nella freschezza profonda delle albe, dove il mondo nasce ogni giorno, si concede come racconto di preistoria di rose e come liminale veggenza o fisionomia di mito: «Non posso sentire l’odore del tabacco misto / a liquirizia mi ricorda l’infanzia e il casale al mare / della costa eraclea. / Nel paese delle cicogne le rondini / non hanno posto e io vivo come loro / aspetto la primavera. / “Quando busserai alla porta non ti sentirò”».
Scavare dentro il limite del buio per trovare la luce, per sentirne la brutale bellezza, che richiama la fisicità di Bigongiari, nel racconto del dito in terra di Gesù nell’incontro con la Maddalena, si avverte tutto il respiro del tempo, teso al destino, e dell’eterno, la chiamata del sangue sbandato e raggrumato.
Nulla si perda in questi acari di penombra, «Si ama sempre una sola terra / chi siamo stati sapremo senza dolore»:
«E io che credevo di saper leggere e scrivere / ascolto solo la ferita come un comando. / E finisco per ubriacarmi di / veggenza. Frana la testa ai miei piedi. / La natura, si sa, va con tutti, ti strozza. / Ma il mio amato ha fiumi al posto dei capelli / terre sconosciute nelle mani e tutte le regioni / del mondo nel corpo. Ha polvere da sparo nei / fianchi e il diavolo negli occhi quando guarda, / resto così distesa / tra la una e il suo mento. / La ferocia delle colombe mi riporta giù / a succhiare latte nelle albe eterne».
La mancanza possiede anche il seme dell’incompiutezza, come la torsione bisognosa ed elementare della Pietà Rondanini in un giorno qualsiasi a Milano. Essere quella torsione, quel braccio sospeso, per chiedere compimento al proprio arrancare, al proprio incavo buio, quando il cielo non basta più nella dolcezza della fine:
«Mi dicevi: “il braccio è sospeso” / e il resto lo misuravo con gli occhi / della fame. / La curva segue più di me la pupilla / che si affaccia nel manto ricurvo / di una vecchia sul figlio. / Pietà dei miei ginocchi / Pietà che io arranco / Pietà dei piedi che non toccano e del “lei mi sorride” / Pietà del mio incavo buio / e di chi mi fece per sempre / l’unico nome che distingui / sotto a un cielo di carta che non mi basta più».
Una incessante e smisurata preghiera, dunque, che non si deposita nel lamento ma perfora il vuoto, avverte il bruciore primordiale delle cose. La figura cara si allontana e scompare in una stagione franta («La piazza in testa e il cuore ai navigli / tu seduto in mille tram per tornare / a casa, fuori le mani s’inchiostrano / sui fogli / dentro cade una rondine»), aspettando un fiume contrario:
«Scendi. E ti chiuderò gli occhi che la morte / ti ha lasciato aperti per vedere meglio il gelo / del mondo. / Sei lì da mille anni e non fai nulla se non / accasciarti di più sui ginocchi / hai sprecato la tua età dovevi ardere / invece che sanguinare. / Nulla voglio solo il tuo amore / nelle mie ossa. / Scendi adesso che non ho più fiato nei denti / e ti guarderò come non ti ho mai guardato».
Piscazzi A., Alba che non so, CartaCanta Editore, Forlì 2018, pp. 67, Euro 10.