Nato a Salonicco in Grecia nel 1902, all’epoca nell’Impero Ottomano, Nâzim Hikmet (1902-1963) ha vissuto un’era di cambiamenti e stravolgimenti.
Non si può comprendere la forza del suo verso, se non lo si iscrive nel contesto culturale e sociale, messo in atto da Mustafa Kemal Atatürk, dal 1924 al 1938, che, conclusa la fase della guerra di indipendenza e l’epoca dell’Impero, si adoperò per un rinnovamento, in senso strettamente laico e moderno, non solo delle istituzioni, ma anche del processo linguistico, con il passaggio dai caratteri arabi a quelli latini e con la spoliazione di molti lessemi dell’antica lingua dei sultani.
Non è uno stravolgimento di poco conto. Hikmet dovette far fronte a un nuovo modo di far poesia e di appoggiarsi a una lingua che maggiormente si confacesse al suo sentire.
L’incontro con il suo mentore Majakovskij è l’inizio di una meta: «Gli aspetti in comune fra il mio modo di fare poesia e quello di Majakovskij sono la poesia che si fonde con la prosa, il superamento del divario fra i vari generi e infine l’introduzione dei temi politici nella poesia.»
Hikmet rompe, pertanto, con la tradizione versificatoria. La pagina si impone come una scelta polisinfonica attraverso il verso libero, percorre melodie e armonie, permane nella sua dinamica di sguardo: diventa visione sulla policromia della realtà.
Lo studio di Marx e della rivoluzione comunista e il suo ritorno clandestino in Turchia nel 1928, non lo sottrassero a una severa condanna del regime a ventotto anni e quattro mesi di prigione nel carcere di Bursa, per segrete attività contro il regime, riuscì a salvarsi solo dopo un unanime appello di una commissione europea di intellettuali, tra cui Tzara, Picasso, Sartre. Esiliato in Europa perse la cittadinanza turca e divenne polacco, stabilendosi a Mosca, dove la morte lo venne a visitare il 3 giugno del 1963.
La poesia di Hikmet è un’esistenza che condensa la pagina, la abbraccia, la accoglie nel suo realismo. La realtà sostiene la poesia in tutte le declinazioni dell’essere.
Sostare nelle trame della storia del suo paese, con i paesaggi visivi ed umani, significa affrescare il folto immobile del passato e della tradizione e far luce su una nazione trasformata, con le sue ideologie, i processi di costume e quelli sociali, permette di guardare al legame, ancora tardo di unione, con il presente aperto sulle disparità, sui traumi di un cambiamento, sui tralicci di una terra da formare.
Chiamare Hikmet il poeta d’amore è un’etichetta veloce per terminare un movimento sempre aperto. L’amore di Hikmet persegue un rimando di generazioni, ossia l’universalità che incontra il particolare delle minute, come afferma Nedim Gürsel: “La poesia di Nâzim Hikmet è come un grande fiume alimentato dalle correnti dell’amore e della fratellanza, ma anche della lotta e della speranza, che confluisce, insieme con altri fiumi, nel grande mare dell’umanità”.
Gli fa eco il poeta stesso: «La mia poesia è radicata nel suo del suo Paese, ma attraverso le diramazioni raggiunge tutte le comunità del mondo, toccando tutte le civiltà che sono comparse sulla terra».
La perfetta sintesi che unisce verità universale e realtà fonda la genesi del suo essere, del suo linguaggio increspato e della sua passione.
Il dialogo con la figura femminile è, per Hikmet, il barbaglio di un tempio. La fiaba del suo tessuto, che, mutuata dalle halk hikayesi (le fiabe turche), fa sgorgare il confine tra amore, morte e sacrificio labilità che si permea nella carne e infrange la cortina docile di una lotta agguerrita: «Sono tra gli uomini amo gli uomini/ amo l’azione / amo il pensiero/ amo la mia lotta/ sei un essere umano nella mia lotta / ti amo».
Il passaggio dalle rapide di una scena alla singolarità è un’onda d’acqua che illumina il mondo, lancia chiarori infiniti, come l’alba: «E sei tu, all’improvviso / tu, mio amore, nel chiarore infinito/ di fronte a me».
La prospettiva esistenziale si sfronda di un futuro che germoglia impavido e ricolmo perché: «Il più bello dei mari / è quello che non navigammo. / Il più bello dei nostri figli / non è ancora cresciuto. / I più belli dei nostri giorni / non li abbiamo ancora vissuti. / e quello / che vorrei dirti di più bello/ non te l’ho ancora detto».
È l’avventura di uno sguardo che cammina sull’oltre, come l’impossibile affina i suoi particolari, il cielo che guarda il cielo, il fuoco che tocca il fuoco e l’acqua che irrora se stessa.
La realtà si afferma nella donna. È in lei che il pensiero, l’azione, la spedizione degli occhi che la guardano e la toccano, trova «la voluttà della mia città nel tuo sguardo», il respiro infinito.
È un amore vissuto e invocato che diventa soglia di paesaggio umano e vertigine di luna. Persino le parole, che accarezzano la forza dirompente e rigogliosa dell’esistere amoroso diventano materia, son il solco di un mistero eterno e una luce chiara: «le tue parole, cariche di te / le tue parole, madre/ le tue parole, amore/ le tue parole, amica. / erano tristi, mare/ erano allegre, piene di speranza/ erano coraggiose, eroiche/ le tue parole/ erano uomini.»
Quando appare lo stupore femminile la realtà si afferma, pronuncia il suo sì, il suo accoglimento, la manifestazione di occhi che sono «spighe di primo mattino» e suono che echeggia «il mondo del mio amore».
Il fulcro della poesia di Hikmet è una dichiarazione d’amore alla realtà delle cose, alla particolarità affrescata dell’esistere, alla patria che disegna il suo volto e quello di chi ama, alla contemplazione sensuale.
Una poesia del ‘sì’ alle cose che ama il compimento, la pulizia del cielo, la nudità di monti e acque., lo sferisterio della notte.
Nella pronuncia del suo amore egli curva la sua esistenza e proclama il suo abbandono, anche nel dolore e nel silenzio di maree scomposte: «La notte, il cielo ha un buon odore di semi/ la notte, il cielo scende sulla via polverosa/ m’impasticcio di stelle».
Il suo esilio raffigura una memoria infranta e nomade, pioggia d’estate «al termine delle grosse rotaie/ arrugginite».
Solo attraverso l’amore esso si mitiga, solo attraverso il profumo della luce si affina il suo compimento e la lotta con le tenebre fitte «va oltre i ricordi / fino al mare pesante senza stelle». Dove si svolge il suo paesaggio si celebra il grembo di una nostalgia, di un ricordo sospeso tra la strada e il cielo «mischiato/ al sole alla sabbia alle mele alle stelle al mare». Nella casa al numero 6 della via Pesciànaya.