La poesia di Emily Brontë è un’anima-brughiera. Un’anima liberata, indelebile e toccata da un impulso che se da un lato, si manifesta come energia o religio sub-stanziale e vitale attraverso una percezione brada di sogno, dall’altro si muove attraverso il cielo fantasmatico e selvaggio di Byron e Shelley (nella incongruità del dolore terreno e lo splendore clamante della natura), vissuti attraverso la lirica spoglia e spogliata del suo paesaggio d’anima. È il suo specchio di sere silenziose, di venti presagi e di accorati cieli che invocano lontananze indaco e che creano visione: «La casa è vecchia, gli alberi sono spogli / E senza luna si piega il cielo nebbioso / Ma sulla terra cos’è più caro – / Più desiderato del focolare di casa? / L’uccello silenzioso sulla pietra, / Il muschio umido che gocciola dal muro / Il sentiero del giardino invaso dalle erbacce / Li amo – quanto li amo tutti!»
Il saggio di Paola Tonussi, studiosa, già di Virginia Woolf, Byron, Keats, tra gli altri, Emily Brontë[1], edito da Salerno, nella collana Piccoli Saggi, ci restituisce l’impronta di una musa alta, come afferma Silvio Raffo:
«solenne ed «estatica»: supera per vigore ed entusiasmo lirico quella delle sorelle, che pure si cimentarono con scrupolo e costanza nell’attività poetica. La sua è un’ispirazione potentemente metafisica e visionaria, che ben poco concede al compiacimento edonistico e al decoramento oleografico cui spesso indulgono Anne e – soprattutto – Charlotte. È l’incandescente passionalità, l’ardore pugnace dello Sturm und Drang filtrato da una sensibilità-sensitività squisitamente femminile, che avvertiamo nei suoi versi più maturi: non ci riferiamo infatti ai testi giovanili del ciclo di Gondal, scritto a quattro mani con Anne, che sulla scia della retorica goticheggiante danno voce ai personaggi immaginari, ma alle prove degli anni successivi in cui l’io che parla è sicuramente quello individuale e «unico» del poeta: testi in cui gli elementi del «notturno» e dell’«anima» si fondono in perfetta sintesi. Sono versi in cui si sente, per citare Charlotte, «una musica particolare, selvaggia, malinconica e sublime».[2]
Il merito particolare del saggio è quello di ricostruire l’iter poematico di Emily, attraverso la traccia unica del tormento ancestrale, della poesia-romanzo di una donna che vive l’abbandono di una «wander about the silent dwelling», ma soprattutto di raccontare la vertigine della sua poesia, la sua loneliness, la tensione ultima e drammatica della sua Stimmung.
Essa diviene pietra imbiancata e burrasca di buio, offerta di sole e tenerezza pura, come se fosse fondo «La vita di Emily offre al biografo rare fonti dirette: qualche biglietto di compleanno, alcune lettere, dei compiti in francese. Pochi fatti scarni da cui partire, essenziali ma insufficienti: di qui la ripetuta tendenza biografica alla congettura o alla creazione di miti per riempire il vuoto. Che è tuttavia popolato dalla sua lirica, dalla musica dei suoi versi[3]».
Il suo grido atmosferico, byroniano e viandante è il discreto silenzio del suo mondo interiore, strettamente connesso, come una sorta di osmosi insondabile, a quello dei fratelli.
I margini scuri della brughiera di Haworth sono passaggio fantasmagorico delle sue rose canine (iconicamente, si potrebbe dire, come la siepe leopardiana), dello svanire in dissolvenza del sogno, del mancamento epico della luce del vento che non sa tacere e dell’erica-porpora: «In tutto il solitario paesaggio intorno / Non vedo immagini, non odo suono / Ma solo il vento che di lontano viene / Sospirando sul mare dell’erica».
Paola Tonussi commenta:
«In pochi versi Emily Brontë dice il suo amore per la brughiera di Haworth, dove il vento smuove l’onda dell’erica e sembra spingersi a spazi infiniti di là dell’orizzonte. Questo fu da sempre il suo universo, una terra spirituale di lontananza e di canto: la visione appare quasi un lembo di estatico presente, misteriosamente sospeso tra il duro suolo dello Yorkshire ai suoi piedi e il cielo alto sopra di lei. Il paesaggio è il primo intermediario tra l’origine e la predestinazione: il vento e il fiore tenace e amato saranno simbolo di quel mondo d’impervia purezza e solitudine in cui Emily crebbe e diventò poeta, e le due più potenti metafore della sua natura».[4]
E poi la durezza di Cowan Bridge come una malsana oscurità di selciati e intorpidimenti che le ricordano la nostalgia di casa, l’inizio osceno del dolore, il distacco isolato del cielo sotterraneo e dei campi insonni.
All’inizio del 1825, Maria, la sorella maggiore, si ammala di tubercolosi e muore, poi sarà la volta anche di Elizabeth:
«è stata la fonte dell’affetto e della felicità: con lei ed Elizabeth ai bambini scompare la tenerezza. La morte si è avvicinata fin quasi ad afferrarli e per resisterle loro stringeranno un vincolo di fantasia e d’amore generato dalla sofferenza che li ha lasciati soli. […] L’infanzia per lei è terminata: tra la perdita della madre a tre anni e la partenza della scuola a sei è stata breve, segnata dalla morte e terminata nel dolore. sarà ancora felice, ma l’Eden si è chiuso per sempre e il rimpianto non la lascerà più: come per tutti i poeti, inizia la sua vita da esiliata, scacciata dal regno perduto della purezza d’infanzia che, crescendo, vorrà ricostituire nella scrittura».[5]
Vi è in Emily, dunque, un’epitome di tenebra incancellabile. Un rito di grazia barbara e passione che fronteggia l’effimero e l’inesprimibilità ribelle del tempo. È Gondal (come era stata l’esperienza giocosa e fertile di Young men, nata dal regalo del padre di una scatola di soldatini), la sua destinazione di furore e crescita, felicità vivida che narra della natura aspra e l’aria della suo fertile silenzio. : «Freddo chiaro e azzurro il cielo del mattino / Distende il suo arco in alto / […] La luna è tramontata ma Venere brilla / Silenziosa stella d’argento».
La musica rimarrà un solco protetto e una geografia interiore che serve a ripararsi dal dolore, dalla perdita, dalla finitudine della vulnerabilità. È infinita erranza lontana, dove la poesia rievoca l’hic et nunc e l’Eterno in un’unica domanda di chiarità nel buio: «Sono più felice quando più lontana / Sospingo la mia anima dalla sua casa d’argilla / In una notte di vento quando la luna è chiara / E per mondi di luce l’occhio allora vaga / Quando io non sono e nessuno accanto / Né terra né mare né cielo senza nubi / Ma solo spirito che vaga libero / Attraverso infinita immensità».
La sua domanda di libertà coincide con l’aspirazione estatica della natura (che diviene apertura chiusa della visione), una voce raschiata e crepuscolare di stanza oscura e di Anima:
«Verrò quando sei più triste / Nascosta sola nella stanza oscura / Quando la folle gaiezza del giorno è svanita / E il sorriso della gioia è bandito / Dalla tenebra fredda della sera / Verrò quando i sentimenti del cuore / Hanno completo illimitato dominio / E il mio influsso su di te diffondendosi / Il dolore acuendo la gioia raggelando / Porterà lontano la tua anima / Ascolta è questa l’ora / Il momento terribile per te / Non ti senti sull’anima / Un Fluire di strane sensazioni rullare / Messaggere d’una forza più austera / Araldi di me».
Paola Tonussi afferma:
«L’anima viene nel mondo con un ricordo remoto di dov’è stata: è quasi impercettibile all’inizio, l’ondulare di una tenda candida al vento. Ogni essere si riconosce, si riappropria per così dire di sé vivendo. Emily Brontë non ha mai attribuito importanza alle cose materiali: con il tempo diventano nulla come nulla considererà il proprio corpo, che sempre più le sembra impacciare la forza dell’immaginazione. Rapita da quanto “vede”, crede di separarsene per accorgersi con dolente stupore di non averlo mai lasciato: la fantasia è veicolo e insieme ostacolo all’ «Araldo», perché inscindibile dalla cornice mortale».[6]
Il silenzio di Emily è una ferita di terra, una guerra di esilio e trame disperse nell’oltre-tempo, come un frammento folle: «Frusciavano all’aria dolce che scende / Dal cielo estivo più sereno, / E irrompendo dall’ombra di foglie / Giocava dorato un torrente di sole; / Bagnava le pareti di luce d’ambra / Splendeva nell’acqua chiara / Che scorreva in basso – riflettendo / L’immenso mondo d’aria senza nubi».
Poi sarà la volta di Law Hill, la sua scura casa-prigione, vicino Halifax, dove, nonostante gli orari massacranti del suo lavoro da insegnante, scriverà la sua camera disadorna di giorni schiusi e estati fiorite e soli spogli («Selvaggia la via, e scabra e tetra; / Brulla tutta la brughiera intorno; / Grezzo il letto che ci accoglie stanchi; / Pietra muscosa e suolo d’erica») e il ritorno a Haworth, piegata all’erba lunga e ai sospiri degli alberi, rapita ad un’altra dimensione, dove il dio delle Visioni avvolge e fa vagare («Rivolgo alle colline la nostra uguale preghiera / Alle colline ventose della terra e al mare azzurro del cielo / Non chiedo nient’altro quaggiù / Che il mio cuore e la libertà / […] Domani ci slanceremo in volo / Eternamente interamente Liberi -»), e il viaggio con Charlotte a Bruxelles e il ritorno a casa, per il funerale della zia Elizabeth Branwell.
La Fantasia è per Emily, il tempio remoto del suo essere, il confine del dolore, il notturno viandante verso l’Altrove, in un andito che accede alle sfere gloriose della bellezza. È privazione e porta d’immenso, allo stesso tempo.
Wuthering Heghts è il libro, scritto da un’aquila, delle passioni circolari e intense e degli impulsi naturali, della «separazione e ricongiunzione dopo la morte[7]» del cosmo ventoso e deistico, dell’eros furibondo e tenebroso di Heathcliff e di Catherine sopra la terra, della memoria e della filosofia, per cui, come afferma David Cecil, «tutto il creato, animato o inanimato, fisico o psichico, è espressione di certi vivi spirituali: da un lato quello che può definirsi il principio della tempesta – l’aspro, lo spietato, il selvaggio, il dinamico – dall’altro il principio della calma – il dolce, il demente, il passivo, il mansueto. I due principi sono in contrasto, e insieme compongono un’armonia[8]».
Pietro Citati afferma:
«Cime tempestose è una creazione assoluta: frutto della pura immaginazione; non deve nulla o pochissimo alle esperienze così povere e austere di Emily Brontë. Il libro è stato creato nella mente: solo nella mente; nel corso di pochi mesi di febbrile, concentratissima scrittura. È misteriosissimo, enigmaticissimo, con continui lampi di tenebra, che ci sconvolgono o, come diceva Charlotte, ci traumatizzano. Non è un normale romanzo ottocentesco, con un narratore onnipresente, che ci racconta una storia dal principio alla fine, sia pure con pause, variazioni, ricordi e interruzioni. I narratori principali sono diversi, e ognuno ascolta la propria voce nella voce dell’altro».[9]
E ancora:
«Credo che Emily Brontë abbia immaginato, almeno per un istante, di essere Heathcliff, fantasticando un mondo dove i vivi possono vedere i morti e parlare con loro, e i morti possono parlare con i vivi. Niente, anzi, era più certo, come crede Heathcliff, il visionario. La verità definitiva sull’amore cupo, l’amore-passione, l’amore-tortura, l’amore mistico — non è altro che l’immenso mantello tenebroso, che la morte distende per sempre sopra di noi».[10]
Tonussi P., Emily Brontë, Salerno Editrice, Roma 2019, pp. 400, Euro 29.
Tonussi P., Emily Brontë, Salerno Editrice, Roma 2019.
Brontë E., La musa tempestosa, a cura di Silvio Raffo, Milano: “Corriere della Sera”, 2012.
Cecil D., Early Victorian Novelists, London 1934.
[1] Tonussi P., Emily Brontë, Salerno Editrice, Roma 2019.
[2] Brontë E., La musa tempestosa, a cura di Silvio Raffo, Milano: “Corriere della Sera”, 2012, pp.6-7.
[3] Tonussi P., cit., p.9.
[4] Id., cit., p.13.
[5] Id., cit., pp. 53-54
[6] Id., cit., pp.162-613.
[7] Id., cit., p.317.
[8] Cfr. Cecil D., Early Victorian Novelists, London 1934.
[9] Citati P., Le note di Emily Brontë: «Pura musica del male», in “Corriere della Sera”, 5 giugno 2012.
[10] Id., cit.