Il gesto poetico di Wallace Stevens (1879-1955) insegue la raffinata eleganza dell’armonia, del seme del tempo, che si incastona in una danza tattile, plastica, fertile.
Nato a Reading in Pennsylvania e ottenuta una laurea ad Harvard e studi in legge alla NewYork Law School, abbandonò l’avvocatura, per lavorare come dirigente ad Hartford in una compagnia di assicurazioni, della quale divenne vicepresidente.
Ma se è vero che la sua fama è cresciuta lentamente, per ritrosia mimetica e distacco dalle vicende letterarie, la forza di Wallace Stevens risiede nella ricchezza lessicale, che è ricchezza di toni e lingua impastata con le latitudini più comuni, che non conosce perdita di vigore, ma sfronda il comodo accademismo, l’ornato di maniera.
Quando uscì la prima vera e propria raccolta Harmonium nel 1924, il panorama letterario statunitense viveva l’orfanità inglese, la proclamava, ne percepiva l’appartenenza.
L’esperienza di Wallace Stevens è un meridiano del mondo, come scrive Massimo Bacigalupo: “una poesia della coscienza come mondo, che si muove con tranquilla sicurezza alla scoperta della vita nella mente e della mente nella vita. Lo sguardo dell’habitué di Manhattan e del Waldorf Astoria ha la robustezza dei Padri Pellegrini che sbarcarono in Nuova Inghilterra nel 1620. Ha tuttavia rinunciato del tutto alle loro convinzioni religiose (ai contenuti, non ai modi), per fare una religione di se stesso: del sentire, del vedere e dell’essere. Del mero essere è infatti il titolo di quella che è forse l’ultima poesia dell’inesauribile libro stevensiano”.
Strumento musicale, affine all’organo, esso diventa emblema e simbolo della nudità fondamentale di ogni armonia, il suo «universo grezzo», la sua eccentrica e pensosa normalità: «Posai una giara nel Tennessee, / ed era tonda, sopra un colle. / Obbligò la sciatta selva / a circondare il colle. // La selva sorse alla sua altezza, / attorno adagiata, non più selvaggia. / La giara era tonda sulla terra / e alta e ben portante in aria. // prese a dominare tutto. / la giara era grigia e spoglia. / Non sapeva di cespo o uccello, / come nient’altro in Tennessee».
Caos, ordine, «wilderness», elemento umano. Attraverso questa discrepanza si instaura il suo problema poetico, il suo incontro e la sua invenzione data del mondo.
La realtà: come vederla, come affrontarla, come saperne scrivere, conoscendone le oscurità e l’intensità dell’istante che viene, la domanda della vita che la poesia cerca di mettere in scena, aprendo i suoi sipari, e le fertili pitture, amandole e ripercorrendole.
La poesia apre solchi nel mezzo del tempo, incide varchi tra armonia e disarmonia, laddove l’io viaggia tra negazione e affermazione, tra vuoto e assenza, vecchiaia e sonno.
Ma quando il vuoto incide il suo spettro nell’anima, l’immaginazione recupera la sua caduta, la sproporzione tra uomo e ambiente, il linguaggio puro e sintetico: «Vita è dunque le cose come sono?/ Sulle corde essa trova la sua via. / Su una corda un milione di creature?/ E il loro intero modo nella cosa, / Il loro intero modo giusto e falso, Il loro intero modo, forte e fiacco?/ Chiamano i sensi, astuti e folli, come/ Mosche ronzanti nell’aria d’autunno.».
Stevens, che guarderà molto a Wordsworth, vede l’immaginazione come la dimensione che riassume il senso del limite e della fine, dell’eterno e della precarietà dell’esistere.
In essa è la sua luce di antitesi e opposizioni, come tra gelo dell’ inverno e l’estate del sole.
Negli ossimori si individua la chiave del suo gesto di conoscenza, di apoteosi della materia e della coltre concreta delle cose.
Commenta magistralmente Nadia Fusini: “La sua poesia canta con «suoni sempre più fiochi un’assoluzione inintelleggibile e una fine». Messo a fronte di questo nulla che è alla base, il poeta ardisce pensare che ciò che misura l’altezza e la profondità dell’uomo è il qui e ora di un orizzonte del senso in cui trionfa il nulla della piatta orizzontalità contro la verticalità esuberante di una trascendenza che nella poesia di Stevens è data fin dall’inizio come perduta. (…) L’uomo, alla fine (e il poeta, per Stevens), è colui che «ha la sua miseria e nulla più». Ma «la sua povertà diventa l’impenetrabile nocciolo al centro del suo cuore». (…) No. La poesia che Stevens vuole scrivere è «la poesia della realtà pura, intatta, senza tropi né deviazioni». Una poesia che vada «dritto alla parola, dritto all’oggetto». Non «un’idea della cosa, ma la cosa stessa»”.
L’enigma della realtà diviene, pertanto, la sua meta, la sua sottrazione all’apparenza come lo scorrere di Il fiume dei fiumi in Connecticut: «Colmo di spazio, specchio delle stagioni, del folclore/ Dei sensi tutti; chiamatelo, ancora e sempre, / Il fiume che non scorre in alcun dove, come un mare».
La forma e la percezione aggiungono sostanza alla realtà, propongono la legge dell’esistenza come insegna ed emblema del divenire, impongono la densità fluida di uno sguardo fedele e rivelativo, come commenta acutamente Renato Poggioli: “Talora esse sono soltanto oggetti, che Stevens contempla nel Gestalt o nella configurazione ch’essi vengono a formare, anche soltanto per un attimo: (…) Più spesso sono forze in movimento, come il “merlo” a cui il poeta guarda da “tredici punti di vista”, o come quel “fiume dei fiumi” che rende fluviale anche la natura circostante. Più di rado sono persone reali o fittizie, come “l’uomo di neve”, o come l’esotica fanciulla il cui ventaglio si fa isola e mare, in un miracolo non meno raro del più bello fra i “ventagli” di Mallarmé”.
La sua visione non ostenta magniloquenza, ma sosta nei punti nevralgici della vita, ne sostiene la forma, la gaiezza e la sensazione estrema.
Nella variegata materia del suo terreno, Wallace Stevens concepisce la poesia come atto e come potenza. In questo spostamento si insinua la sua scena umbratile, la memoria di una visione senza fine. Quando guarda il mondo egli sperimenta un io collettivo, lo vede nei crinali alti e lievi, lo immagina in un equilibrio di forze.
Cui il suo «mattino domenicale» consegna la sua arma solenne, come sapienza e sortilegio.