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Le essenze di interni di Patrick McGuinness

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Due tempi su dibattono con un unico istante, un’unica percezione

scordata mentre accade, ricordata prima che abbia avuto inizio

Patrick McGuinness, Déjà-vu

 

La poesia di Patrick McGuinness (1968), poeta e critico letterario gallese, docente di francese e letterature comparate all’Università di Oxford e al Fellow di St. Anne’s College, vincitore di un Eric Gregory Award per la poesia dalla Società degli Autori e nel 2003 il Levinson Prize per la poesia dalla Poetry Foundation, nonché nominato per il Roland Mathias Prize nel 2005, rappresenta l’apogeo di un incontro, il pianto e il benvenuto, la gioia ariosa e le lettere che si incrociano e si toccano nel buio, creando diorami di visione e di altrove («place and displacement»), come in questo legame infinito di padre e figlio, al di là del tempo: «Dietro le quinte c’è uno che aspetta di entrare, / e un altro, finita la sua parte, che aspetta di uscire. / Mi piacerebbe pensare che si siano incontrati, se non qui / allora come lettere che s’incrociano e si toccano nel buio; / la pagina bianca e la pagina voltata, / la prima e l’ultima, ombre che si ripiegano / attraverso e sopra di me, in cui si legano».

Grazie all’editore Interno Poesia e alla cura di Giorgia Sensi, è stato pubblicato Déjà-vu[1], dove la scrittura di McGuinness rappresenta l’esito di una soglia in movimento, una lingua che prima di essere scritta, quindi affermata, cadenzata e ,persino bisbigliata, è un crocevia di confini (ancor più propriamente di oltre-confini), che guardano alla “fine”, all’ultimità, come battito sorgivo e fenditura che prende la luce:

«Scrivere era costruire su carta; / Parlare era fare cose con l’aria; / Vedere era prendere la luce, e darle la forma / Di qualcosa che non c’era mai stata» o come afferma in una prosa del libro: «[…] penso che sia una naturale inclinazione del materiale letterario quella di “tradire”, di attraversare confini, di passare da un genere all’altro, di rifiutare di essere costretto in un’unica forma di scrittura[2]».

Nelle pause e nelle aperture, nei bordi metafisici che incontrano il tempo dell’altrove, nell’abile filtraggio della complessità ritmica, il testo di McGuinnes rivela «una poesia formale, precisa, coesa, spesso sintatticamente complessa; una poesia che mira a non mostrare le cuciture, a nascondere il più possibile le giunture; i riferimenti – anche e soprattutto quando sono autobiografici – sono indiretti, obliqui[3]», che da una parte esprimono l’importanza dei segni, «la grazia altitudinale[4]», il segmento frammentato del tempo e, infine, le apparizioni, lo scambio delle dimensioni, lo spazio dei cieli, come nelle intense poesie che raccontano il senso della sua “belgitudine” («Presto imparai / a tenere la bocca chiusa in due lingue; / chiamavo casa su telefoni-aragosta / in una pioggia di bombette. I treni erano puntuali, / percorrevano microdistanze in decenni. / Dopo un po’, col sembrare fuori posto, mi integrai, / travolto in un’ondata lunga una strada di pizzo per tendine»):

 

«Le strade ricompaiono / nella rivelazione della risacca; pietra su vedova pietra / le case di Atlantide restituiscono lo sguardo: miraggio / o immagine speculare? Il reale e il riflesso / si scambiano dimensioni; il cigno marca in superficie / con mano cauta, testa a testa col suo fantasma. / Alberi rigoglioso contano le loro foglie; / il canale è calmo mentre moltiplica le albe» (Bruges).

 

O nella vertigine di Leuven, densa di specchi linguistici[5] e rifratte sovrapposizioni di spazio abitato[6]: «La pietra rosa del beguinhof, i suoi percorsi / labirintici e le vie d’acqua tortuose: un paese modellato sulla mente umana, un pulsante / dedalo di circonvoluzioni; ogni abitante / un pensiero, ogni visitatore il guizzo / di un istinto, un riflesso nella introspezione / sovrapposta della città. Tutto è analogia, / ogni cosa è percepita prima come qualcos’altra: […]».

La parola che risuona, lo scenario della densità immaginifica che si spinge fino al risuonare dell’oscurità consentono al suo «atlas of displacement», come afferma Kelly Grovier[7], la forma dell’alito e il solco del pensiero come sillaba intricata, che da una parte descrive una essenziale rapsodia, dall’altra espone il suo piano incisivo e profondo, come avviene nella Boullion[8] di L’età della sedia vuota, città natale della madre e dove abitavano i nonni, , che diviene «il centro e l’anima del suo memoir[9]» e dove l’irruzione e il frangimento, la polvere scomparsa e improbabile, le sospensioni e le vernici screpolate, la granularità delle stazioni e impronte[10], i ricordi e pulviscoli diventano cose che sopravvivono, restano impigliate in una eccedenza rinnovata o in un trionfo di proporzioni.

E dove la cicatrice e il lessico del tempo materno («è così che penso a lei ora, come / si dice di un pensiero che attraversa la mente: come l’ombra di un uccello mentre vola, che nel buio trascina per terra l’apertura delle ali») scopre  il lato del suo tempo e il peso dell’aria della lingua:

 

«Una bandiera ritta sull’asta / segnala / un muoversi dell’aria, o qualcosa di più, e le onde frante, / delicati tumulti di spuma e pizzo, sono lontane cugine della rivoluzione, / legata al flusso e riflusso da cui si rompe, e in cui / di nuovo irrompe. / C’è sabbia nel dipinto; il luogo si fonde con la sua fattura, / e perfino le pennellate replicano i picchi dell’acqua / quando prendono / la luce: tetti alla rinfusa su un orizzonte urbano, / scoppi nel sole. / La sedia suggerisce tutto ciò che si può suggerire / sul cambiamento, ma vi rimane / distaccata: così come una vela suggerisce il vento; / come una conchiglia registra / il suono delle onde proprio mentre le onde girano / intorno».

 

Si consegna così una poesia di transito, un cielo discorsivo e strappato che frequenta il luogo bianco e la solitudine. In ciò risiede l’ultimità di significato e di risveglio, di connessione di elementi («Inseguo il suo profumo, traccia su traccia di vapore, / tra la folla fin dove lei non c’è, fin dove / la sua scia si dissolve in aria / che attraverso come fossi io lo spirito, non lei»), di assenze e sussurri lucidi, dove la densità dell’istante diviene incombente ecografia della grazia insonne: «I. Mute spirali di oscurità. / Poi un lampo, uno zodiaco bianco. / È come il mattino lui: / carne, un corpo che albeggia; / lo scheletro un filamento d’argento, / il corpo una lampadina in una camera colma di notte. / II. Il Grande Carro sosta su acri neri, i solchi / arati e seminati; la terra dissodata / dove il bambino stella si gira e cresce. / Una prima pagina che getta l’ancora nell’inchiostro».

Nelle poesie nuove, McGuinness costruisce la sua scena attraverso il respiro di ciò che avviene, il tempo che arriva a sfaldarsi e a non-essere, salvo poi ritornare a divenire corpo come argilla («[…] un graticcio su cui il sole scende, bruciando, fino all’estuario / che racconta il Tempo in tutti i suoi modi: sabbia nella clessidra; / acqua come flusso o riflusso della marea; corpo come argilla») o passo in una tregua annusata o in una crepa nell’intonaco, come lo stesso respiro degli amanti:

«Mi chiedo qual è stato il primo degli ultimi / saluti, e se l’abbiamo riconosciuto dal sapore / o se è stato un singolo bacio a iniziare per noi / l’autunno in bocca. / Mi chiedo quando è stato che abbiamo annusato / le spore di umidità dentro la casa nuova / che pensavamo di aver costruito, o visto l’incrinarsi / della vernice che ha allargato la crepa dell’intonaco / che si è poi spaccata con polvere di mattoni e aria. / Mi chiedo quando è successo, e mi chiedo perché / il tempo non ci riporti quei perfetti estranei / che eravamo all’inizio, quando tutto era diverso, / e tutto lo stesso, / e tutto non-accadeva all’istante» (Il primo degli ultimi saluti).

Sembra, dunque, attraversare anche le pareti del bilinguismo, come anditi di una linearità impossibile che, però, rivelano una nudità inusitata dinanzi alla parola e alla sua fertile spremitura.

L’infanzia, il ricordo, la ricomposizione di un tempo perduto rilasciano un dramma di incanto di stanze[11]. Bouillon contiene la rivelata sperdutezza della bellezza familiare: dal nonno materno Eugène alla nonna Lucie, sarta, fino al soggiorno esotico degli “ardennais” Rimbaud e Verlaine, poi fino all’oscuro nazista Léon Degrelle o alla birra trappista.

McGuinness qui, non crea impalpabilità, bensì lambisce il territorio umbratile del tremore, dove l’inizio e la fine dei confini hanno possibilità, gli occhi della reminiscenza e della speculazione incedono nel loro battito metafisico[12] e l’enigma e la sparizione sono attimi segnati dalla profondità: «Solo lo specchio vuoto mi restituisce quel tempo, e le tendine di pizzo, / più aria che pizzo, sono filtri che fanno passare le / ombre attraverso la luce. / Ogni volta che respiro lo inalo, quel sublimato di tutto / ciò che non c’è più. Essenza di interni si chiamerebbe il profumo, se lo facessero».

Non dipingendo fantasmi, egli affida al passo delle cose il suo personale Déjà-vu che è un battito sotterraneo e una percezione in lontananza: «Scordata mentre accade, ricordata prima che abbia avuto inizio: / due tempi si dibattono con un unico istante, un’unica percezione».

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McGuinness P., Déjà-vu, a cura di Giorgia Sensi, Interno Poesia Editore, Latiano (Br) 2019, pp. 102, Euro 16.

[1] McGuinness P., Déjà-vu, a cura di Giorgia Sensi, Interno Poesia Editore, Latiano (Br) 2019.

[2] Id., cit., p.113.

[3] Sensi G., Prefazione, in McGuinness P., Déjà-vu, cit., p. 12.

[4] Wilkinson B., (https://literature.britishcouncil.org/writer/patrick-mcguinness), 2009.

[5] Times Literary Supplement, Friday 19th November 2004.

[6] Berkeley A., Oxford Poetry, Issue XII, Spring 2006.

[7] Grovier K., New Welsh Review, Summer 2005.

[8] In un’intervista rilasciata a Valentina Gosetti, su portale Treccani.it, McGuinness afferma: «Bouillon è un piccolo paese sul confine fra Francia e Belgio, bello da vedere, economicamente depresso, pieno di carattere e di persone che sanno – senza necessariamente riconoscere – quanto siano fortunati a vivere lì. In questo senso Bouillon è come tanti altri luoghi del mondo – in Italia, ad esempio, dove ogni località è così specifica e unica, eppure, paradossalmente, è questa stessa unicità – i particolari dialetti, i vari modi di parlare, i legami familiari, eccetera – che la rende universale»,  in Gosetti V., McGuiness, poeta senza patria, 8 aprile 2014 (http://www.treccani.it/magazine/atlante/cultura/McGuinness_poeta_senza_patria.html).

[9] Sensi G., cit., p. 8.

[10] Kennedy D., Solid Castles in the Air, in «Planet magazine», issue 170, Spring 2005.

[11] Banville J., Other People’s Countries review – memory lane, lovingly explored, “The Guardian”, 17 Mar 2014.

[12] Hofmann M., Other People’s Countries: A Journey into Memory – review, “The Guardian”, 12 Mar 2014.