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Le impronte di Giovanni Cristini

giovcristini

«La parola è il luogo in cui l’io svela a se stesso l’immagine del mondo. Nulla esiste se non nella parola, attraverso la parola. Tutto emerge nel quadro della conoscenza dentro il lampo della parola. Essa nomina tutti gli esseri, a uno a uno, e li fa esistere».

La parola di Giovanni Cristini (1925-1995) appartiene al gesto umano che permette che il mondo possa compiersi appieno, coglie il segreto che partecipa al grido della creazione, poiché «fare appello alla contraddizione della natura umana (miseria e grandezza dell’uomo) sarebbe ancora insufficiente se non si andasse anche alla radice dell’arte come epifania della segreta grandezza dell’uomo».

Una delle più grandi personalità della poesia di ispirazione cristiana, come lo ha definito Luigi Santucci, egli sente e avverte con compiutezza il peso e la maledizione benedetta dell’arte, la sua ferita e la sua grandezza.

L’intaglio dei frammenti, come sponde toccate dalla luce, compone il suo termine di limite definito, l’ostinata ricerca di un orizzonte tangibile, la vita che si scopre.

Nato a Brescia nel 1925, dopo gli studi liceali e gli interrotti studi universitari, inizia la sua attività di giornalista e scrittore con articoli di critica e di costume, presso alcune testate locali come “BresciaNotizie”, per poi essere assunto presso la casa editrice “La Scuola” e collaborando, come scrittore e redattore, alla rivista per studenti Carta Penna e Calamaio, punto di incontro per molti giovani e tenendo una rubrica fissa, Su Onda radar. Successivamente parteciperà alla vita culturale italiana, intervenendo su testate italiane, come “Avvenire”, “L’Osservatore romano”, il “Giornale di Brescia” e divenendo direttore del mensile «Il Ragguaglio Librario».

La conoscenza e la profonda amicizia con don Primo Mazzolari (a cui dedicherà il poemetto Il grande grido), segnerà non solo la sua vita, ma destinerà la sua partecipazione al quindicinale Adesso, fondato dal parroco di Bozzolo.

La personale ricerca inquieta del suo mosaico esistenziale e della sua tensione si lascia scoprire immediatamente, come sosta e frammento di visione, fulcro di vita e magma coeso: «Uno dei pregiudizi nei confronti della poesia religiosa è che la fede ne mortifichi lo slancio creativo offrendole già fatti gli stilemi espressivi tradizionali della liturgia, dei salmi e degli inni e che le precluda i sentieri della ricerca esistenziale, del dolore e dell’angoscia, offrendole la visione di un mondo già in sé concluso, perfetto e risolto in Dio. […]», ma come il vecchio Adamo «che deve convertirsi continuamente, giorno per giorno, al richiamo della grazia, […] Nulla è dunque concluso e perfetto, anche nel mondo del credente, chè, anzi, più alto è il richiamo, più inquieto e difficile e doloroso è il cammino».

Le dolorose meditazioni sulla passione di Cristo (La strada della croce), pubblicate successivamente in Concerto grosso, conducono una personale destinazione sul sentimento del mistero, dell’infinito e del divino. «Cristini», scrive Enzo Noè Girardi, «non fa della poesia un uso apologetico; e in contrasto con Bremond la distingue, anche se di soggetto religioso, dalla preghiera», così come «[…] l’amore per la natura, di cui dal principio alla fine utilizza oggetti e aspetti: fuoco, vento, erbe, fiori, uccelli, voci, luci e ombre, come simboli del divino, della sua bellezza e del suo mistero».

La foglia e il prato d’erba, come elotiano correlativo oggettivo, esprimono il significato ultimo di un proscenio trasalito e piegato: «Anche l’erba conosce / la tua trepida attesa, / e la foglia che piega / triste ala nel buio ecco trasale / appena un soffio le fa festa intorno», poi «nel chiarore» del sabato santo «una striscia di fuoco rompe l’aria, / il miracolo è vivo. Sfugge le stanche bende, / sfugge la morte che uccide col suo lunghissimo fiato».

La cifra pasquale sfalda il respiro della morte, come la solitudine, la nudità dell’«ombra d’un ramo fulminato protende / la sua croce a sghembo sul tuo cuore, / e il pallido sudario che un vento / agitava a remota primavera / non consola la tua chiusa promessa / di lacrime».

Il cosmo partecipa alla passione, per corrompere l’autunno fino all’ultima foglia, mentre essa «tùrbina gialla sulla brughiera, / s’avvolge al nero vento che ti scuote». Il gelo, il dolore, la morte, il grido della rossa veste come il rozzo albero della croce, tentano di aggrapparsi a quel legno «ove dolora, / confusa al tuo silenzio, / la nostra voce come un nudo ramo», che «sostenne le sue mani», «scoprendo nei chiodi e nei dadi della sua passione dell’uomo e del mondo».

Il compendio della passione è fioritura di aurora e sepolcro di fuoco. Ci sono chiodi precari e scaglie immature dinanzi al «piagato stendardo» che si leva sulla «triste collina» del Calvario.

Scrive padre Nazareno Fabbretti: «Cristini ha scoperto nel vivo degli uomini il mistero evidente d’una Passione che riscatta tutta la sofferenza delle creature, e non è mai compiuta. Sulla Passione di Cristo ruota tutto il movimento interiore ed è rarefatta nel tocco la voce di questa giovane lirica. Anche nei versi più apparentemente legati a esigenze estetiche, una pena sorda e remota fa gorgo nella sua pagina. È una reductio lirica di tutti i sentimenti umani all’unica tragedia che ha potuto cambiare le ragioni del mondo: la tragedia del Calvario».

Il suo Concerto grosso, nato dall’ascolto di Vivaldi, che alterna lo squarcio del dolore, in «una specie di contrastato contrappunto», impone la forza dura di movimenti e oscillazioni, il mistero dell’esistenza e il mistero della resurrezione, l’eterno e la zolla di mondo, come «il sublime che si rivela attraverso torri di pietra piantate contro il cielo, scivoli di neve, lingue di ghiaccio, l’orrido delle cenge, il rumore dei torrenti, il silenzio dei boschi, il giglio rosso, la vipera, la tela del ragno – questa indistruttibile foresta di simboli che abbaglia e esilia».

La trama che abbaglia ed esilia, appunto, è la fenditura di una cartolina di tempo che apre la maestà sospesa, nel timore di un artiglio tremendo che «ti trascina nel vuoto che strapiomba, / nella vertigine bianca che sale, / e la terra ruota lentamente, / ti sfugge sotto i piedi, s’inabissa».

Il senso di esilio dell’esistenza, segnato e in bilico su una «vertigine bianca», pare incrinarsi in un’ombra spaesata e sradicata che tocca la coltre dei sentimenti e delle azioni. Pertanto, come scrive padre Antonio Spadaro: «il canto migliore di Cristini nasce sempre da un gorgo, da un grido, il quale però non sembra mai destinato, grazie alla fede, a restare inascoltato o solitario, come se fosse semplicemente e drammaticamente lanciato nel nulla»: «Noi qui venuti all’ombra di questa pergola / che dolcemente si sveglia al soffio dell’aprile / che s’inquieta di foglie, frastaglia / d’ombre la bianca tovaglia / (e già pendono i grappoli del glicine / fioriti e stenti, uccelli nel carniere) / non siamo qui venuti per scordare. / Questa non è la nostra vera casa, / e soltanto una fumida locanda».

La condizione forestiera dell’uomo è un viaggio per scoprire il vivente giardino del mistero, come «lo scarabeo dorato che muore / nella crepa di un muro, / nella corolla di un fiore». Si tratta di scoprire l’impronta nascosta e sollecita del divino, poiché l’universo non è che «un geroglifico immenso, un grumo / di segni, una conchiglia, un nido / indecifrabile agli occhi / della mente e del cuore». La poesia che ascolta il fruscìo della conchiglia dell’universo richiede ascolto, segno, vibrazione che svela tonfi e bisbigli.

La sua ultima produzione compie ancora maggiormente l’impulso della sua stimmung religiosa, giungendo, come scrive Spadaro «a tradurre suggestivamente e allusivamente il mistero eucaristico in immagini di grande bellezza e drammatica semplicità»: «Non sei sullo scaffale / un solo libro, sei / un crocicchio di libri, spine, amore, / un fitto intreccio / di vimini e di vene, / terra battuta da lacrime, / storia sacra e profana / e olio e pane e vino per la cena. / e quando il tuo disegno / sarà finalmente compiuto / sulla tovaglia resterà qualche traccia / di sangue / e un solo pane / in consumato per l’inconsumabile / fame del mondo».

L’avventura poetica di Cristini avverte la numinosa meraviglia dell’avvenimento, come la genesi di un’epifania mai conclusa e rattrappita. Nel germoglio libero e spontaneo dell’essere converge tutta la sua fertile e potente attesa libera e inquieta. Gli affetti, la quotidianità, il passaggio delle cose, sono tutte protese verso «la soglia che invisibile si staglia / oltre il fuoco che estua nel silenzio». Tutto è pronto, il congedo richiede un ultimo tremante affidamento a Dio e alla sua manifestazione nel mondo, come impronta irrequieta di un’immagine amata: «Quando sarà il momento, Signore, / concedimi di portare con me / il fico grande del giardino di Montaldo, / l’aiuola con le rose e con l’ibisco, / uno spruzzo di mare / con le sue onde lucenti, / il Campanile Basso del Brenta / e l’allegro sorriso dei miei figli. / E lascia ancora che porti con me / il piccolo scrittoio in camera da letto / perché possa vedere per sempre / mia moglie che scrive / al lume della lampada».

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