Un flusso di immagini che crea un movimento inafferrabile, un magma verbale che abbraccia le cose, che si insinua dentro di esse, definendosi in un gesto ampio, teatrale, vivido.
Di questo si nutre la poesia di Lawrence Ferlinghetti, nato negli Stati Uniti nel 1919, madre di origini francesi, ebree sefardite e portoghesi, padre italiano.
Ferlinghetti ha respirato la beat generation e gli ampi movimenti della poesia: da Pound,a Kerouac fino a Ginsberg, Corso e Bukowski, scrivendo in Francia, negli Usa, dando vita a San Francisco (dove è diventato “poeta laureato” nel 1988) alla “City Lights”, dal nome della rivista cinematografica di Peter D.Martin, libreria-monumento e casa editrice, pubblicando con questa nel 1956 Howl and Other Poems di Allen Ginsberg, che gli costerà un arresto e un processo per oscenità, vendendo subito centomila copie.
Nel 1958 la propria raccolta poetica The Coney Island of the Mind, rappresenta un punto fermo di frontiera, risultando a tutt’oggi tra i libri di poesia più venduti al mondo.
Uomo di ponti accesi tra le nazioni, che abita le ampie falde della dizione che riempie il discorso, come arte che insorge nelle connessioni e negli spazi bianchi delle pagine.
La luce e la bellezza sono la vertigine di un processo creativo che unisce immagini spezzate, che asseconda le pieghe della rabbia, del malessere, del grido: « L’universo trattiene il suo respiro/ C’è silenzio nell’aria/ La vita pulsa ovunque/ La cosa chiamata morte non esiste».
Dove c’è grido e ribellione il tessuto delle immagini convoca tenerezza e pietà. Anche nella dimensione socio-politica il linguaggio abbraccia profezia e visione, apocalissi e richiami che mettono a fuoco un ponte di vertici e di suoni.
In quella sponda di limiti e di accensioni che è l’America, il Prevert americano, come disse di lui Fernanda Pivano, esprime poesia che diventa il luogo di liberazione individuale e collettiva, che irrompe come miracolo che si rinnova e vive nei tessuti della realtà.
La magia sotterranea della sua poesia, aperta al grottesco e all’allusivo, sono energia di emersione attuale, ricolma di ironia sagace e appartenenza a una tradizione che rivive, che rinnova la sua promessa di immagini, e tempio di visioni che solcano la storia, le sue evoluzioni, i suoi processi: «Pietà per la nazione i cui uomini sono pecore/ e i cui pastori sono guide cattive/ Pietà per la nazione i cui leader sono bugiardi/ i cui saggi sono messi a tacere /Pietà per la nazione che non alza la propria voce /tranne che per lodare i conquistatori / e acclamare i prepotenti come eroi/ e che aspira a comandare il mondo /con la forza e la tortura».
La sua anarchia diviene, pertanto, un tempio di flussi vitali e architetture ampie, che spiano il misticismo e i quadri quotidiani: «l’immaginazione / gira su se stessa/ con bianche visioni elettriche/ e si ritrova pazza/ denutrita / fra le ebridi».
Anche il paesaggio americano,delineato nelle sue vitalità d’insieme, dalle luci al neon, ai grattacieli, agli «uomini-sandwich», vive il disagio e la pienezza di una coltre umana che dirompe nelle sue epifanie e rappresentazioni, laddove il poeta-acrobata cammina, in equilibrio, sulle «travi degli occhi».
Le referenze pittoriche, il calmo passo dell’atemporalità nelle proiezioni, fanno della poesia di Ferlinghetti un’accensione continua, uno sperdimento edenico in evocazioni vivide, in terra promessa di estasi e «intimazione di immortalità».
La percezione verso la totalità, la registrazione dei dettagli, il climax della visione, non sono abbagli, ma frontiere accese di un rigoglio, di una pittura di un mondo passato e di qualcosa di là da venire.
Scrive Roberto Sanesi in rapporto alla comunanza della sua poesia all’happening: “Ciò che accomuna Ferlinghetti a queste manifestazioni (e ai beat), e nel medesimo tempo lo situa in posizione di raccordo sul versante populista/ simbolista della tradizione novecentesca mantenendogli tuttavia una figura autonoma, è forse proprio l’iniziale recupero delle avanguardie storiche( in primo luogo dada e surrealismo) con le loro dichiarate sollecitazioni politiche, il loro accostamento alle ragionate analisi di una crisi provenienti dall’area esistenziale francese dell’immediato dopoguerra, e il loro innesto sul ceppo americano in un momento di particolare ricettività.”
Nei suoi flussi torrentizi esplora provocazione e simbolo, profezia e polemica, abbandono e vitalità.
I suoi grandi movimenti di meraviglia riscoprono la dolcezza dell’umanesimo, la primitività dell’impeto religioso che s’innalza all’insorgere di un ideale innocente, di una tensione ricolma:«nei boschi dove tanti fiumi scorrono/ tra le basse colline/ e i campi della nostra infanzia/ dove la memoria confonde pagliai e arcobaleni/ anche se i nostri «campi » erano strade/ rivedo sorgere le miriadi di mattine/ quando tutte le cose viventi/ gettavano ombre sull’eternità/ e tutto il giorno la luce / come il primo mattino/ con le sue acute ombre ombreggiava/ un paradiso.».
In questa poesia di ricezioni e scandagli, il poeta avverte la realtà e i suoi dettagli, registra le azioni sul declivio del paradiso, avverte la fascinazione del significato delle cose: «Faccio una vita tranquilla/ nel bar di Mike tutti i giorni/ a guardare i campioni nella Sala Biliardi/ e i maniaci dei flippers francesi».
Dentro l’aspirazione alle traiettorie dell’innocenza e dell’esperienza compie il suo status nel bel posto del mondo, vivendo sponde e margini: «A una certa età/ il suo cuore si mise a cercare/ perdute spiagge/ E udiva i verdi uccelli cantare/ dall’altra sponda del silenzio».