<<Ogni volta che rivolgi verso di me i tuoi occhi compiacenti sono nel cuore circondato da tutte l gioie; allora vengono accondiscendenti tutte le Muse, allora si vede puro e limpido il raggio del sole>>. Così scriveva Angelo Poliziano, homericus adulescens, al suo signore Lorenzo de’Medici, in un’ epigramma latino, che conserva ancora intatto non solo un sentore ‘cortigiano’, ma anche un legame importante di dipendenza. Il contesto culturale della Firenze polizianea cambia contenuti: il docere sostituisce il delectare. Cultura nuova che si affina sull’attaccamento ai classici latini, sull’erudizione e sulla filologia, con l’intento di elevare il tono popolare della cultura fiorentina dell’epoca, impregnata di una miscellanea di stili e di suoni. Egli cerca, pertanto, la riesumazione di una stagione, decisiva per la letteratura, come quella delle Tre Corone (Dante, Petrarca, Boccaccio), per sondare i legami tra quella poetica e la tradizione aulica classica, non disdegnando perfino la produzione a lui contemporanea. Non solo nella sua opera latina ma anche in quella volgare tout court, Poliziano abita i secoli e si propone di esibire una sua stanza di archivio di citazioni e di nobili radici poetiche. Scrive Paolo Orvieto: “Operazione di impasto classico/volgare dettata dal maniacale sperimentalismo linguistico, con invece maggiore refrattarietà (o inabilità) a costruire un disegno generale, organico e coerente in cui inserire gli episodi poetici”. La sua professione di fede nella filologia, contro ogni arbitrio ermeneutico, e nella formulazione combinatoria ad incastro, si individua l’esibizione di una tensione del verso alla nitidezza, all’”emporio di frasi”, come scrisse De Sanctis.
Dentro questa tensione si anima anche il raffronto con il suo contemporaneo Marsilio Ficino, impegnato nella riproposizione di dettami e stilemi neoplatonici. Nella poesia polizianea che inaugura anche una nuova teatralità profana con l’Orfeo, ci troviamo dinnanzi a un uomo terreno, responsabile della sua felicità e infelicità e lontano dal mondo iperuranico, caro a Ficino e ad altri umanisti vicini alla sua lezione, con tutte le sue connessioni e deificazioni,.
Il 29 gennaio 1475 si svolge in piazza Santa Croce una giostra cavalleresca per celebrare Giuliano de’Medici e la lega di Firenze con Milano e Venezia. Poliziano è chiamato, con le Stanze, alla celebrazione del giovane rampollo di casa Medici, come fu per Pulci e Ugolino Verino per Lorenzo. Furono interrotte nell’aprile 1478 alla stanza 26 del secondo libro, a seguito della morte di Giuliano, caduto nella congiura dei Pazzi. Testo rifiutato dal suo autore eppure destinato a glorie future, rimane ancorato non solo a molta produzione classico-volgare (anche nell’uso dell’ottava, così come non sembra molto lontano Pulci) e soprattutto al modello dei Trionfi petrarcheschi,vive però di una grossa frammentarietà, incompiutezza e irregolarità. Le Stanze sono innanzitutto la descrizione di una prova cavalleresca generata da un impulso erotico in un locus amoenus terreno, la conquista cioè della dama: Simonetta Cattaneo, resa poi immortale da Botticelli. Giuliano-Iulio è dedito alla caccia e trascura Amore (con punte anche di virulenta misoginia), finchè Cupido si vendica, costringendolo a inseguire una bellissima e candida cerva, da lui formata, fino ad una radura, dove si trasforma in Simonetta, appunto, della quale si innamora. Qui, come nella Canzona di Lorenzo, il disagio ultimo insidia un ottimismo naturalistico e una ‘letteraturizzazione della realtà’, come scrive Giulio Ferroni: “la malinconia si connette ad una bellezza perfetta e insieme fragile ed effimera”. La divinità Amore sembra quasi aver valore positivo soltanto nella misura in cui reca fama e gloria eterne. Un percorso che non ha ascensioni teologiche o mistiche e la stessa Simonetta, che diviene poi una sorta di Laura post mortem, incatena infatti ad una colonna Amore: “Pargli veder feroce la sua donna/ tutta nel volto rigida e proterva,/ legar Cupido alla verde colonna/ della felice pianta di Minerva,/ armata sopra alla candida gonna,/ che ‘l casto petto col Gorgòn conserva;/ e par che tutte gli spennecchi l’ali,/ e che rompa al meschin l’arco e li strali.” Esiste però una sotterranea e mal celata misoginia da parte di Poliziano che ha sì cantato d’amore per un Alessandra Scala o Ippolita Leoncini ma in maniera fittizia, come amusement, come dimostrano le sue Rime. Com’è l’amore di Poliziano verrebbe da chiederci allora?. Innanzitutto una sublimazione delle’eros in eroismo, trasfigurato in azione compiuta, in Gloria ‘panpoetica’: “ Con voi men vegno, Amor, Minerva e Gloria, / chè ‘l vostro foco tutto el cor m’avampa; / da voi spero acquistar l’alta vittoria,/ chè tutto acceso son di vostra lampa;/ datemi aita sì ch’ogni memoria/ segnar si possa di mia eterna stampa”. Nell’Orfeo, dolorosa proiezione autobiografica permeata dalla cosiddetta “docta varietas”, lo scatenamento dionisiaco delle Baccanti, che lacerano il corpo di Orfeo-Poliziano, dopo che egli aveva perduto Euridice, vessillo di giovinezza e bellezza, decreta, come sottolineato da Vittore Branca, un netto mutamento poetico: “Sembra che la poesia stessa ormai per il Poliziano, al confronto con la vita pratica, non sia che una bellissima illusione”. Anche nelle Rime, la contaminazione del sottofondo colto fa da proscenio ad una primavera innocente e fresca. Raffinatezza che si accompagna a precise formule combinatorie, basti pensare anche alla minuzia descrittiva dell’acaro della scabbia nella Sylva, singolare condizione esistenziale dell’io narrante. Ancora una volta nell’arte cesellatrice di Poliziano il particolare è teatro di universali complessi e frammentati, come in un grande brogliaccio.