Nato a Santiago del Cile nel 1893 e morto nel 1948 a Cartagena, vicino a Isla Negra, l’isola e il rifugio di Pablo Neruda, Vicente Huidobro rappresenta, nell’universo poetico ispano-americano, un punto di contraddizione e di accensione, per una nuova formulazione lirica, il cosiddetto Creazionismo, che vedeva nelle facoltà inventive e nel distacco dell’autore da ogni forma di imitazione e descrizione una nuova visione ed esperienza poetica: un atto demiurgico di pura creazione.
La prima raccolta poetica di Huidobro, Ecos del alma, sembra far presagire l’inizio di un processo che, sebbene tenda ad abbracciare atmosfere crepuscolari e religiosità ingenua, afferma già in fieri una scrittura visuale e una figuralità che coniuga concreto, astratto e plasticità: «Il campo dorme con una pace di anziana, / E la luna si affaccia tra il filare dei pini/ Come una malata tra le inferriate di una finestra».
La sua inquietudine culturale e di origine lo porta, da subito, a frequentare gli spazi verbali, in cui la forma obblighi chi legge a partecipare a una costruzione, quasi a suggerire la parola poetica, come scrive egli stesso nei Manifesti del 1925: «È una poesia nella quale ogni parte che la costituisce, e tutto l’insieme, mostra un fatto nuovo, indipendente dal mondo esterno, slegato da qualunque altra realtà che non sia la propria, che prende il suo posto nel mondo come fenomeno singolo, a parte, distinto dagli altri. Questa poesia è qualcosa che non può esistere se non nella testa del poeta. E non è bella perché ricorda qualcosa, perché ricorda cose viste, a loro volta belle, né perché descriva cose belle che potremmo anche vedere. È bella in sé e non ammette termini di comparazione. E nemmeno può essere concepita fuori dal libro. Niente le somiglia del mondo esterno; rende reale quel che non esiste, cioè si fa realtà a se stessa. Crea il meraviglioso e gli da vita propria. Crea situazioni straordinarie che non potranno mai esistere nel mondo oggettivo, per cui dovranno esistere nella poesia perché esistano da qualche parte. (…) Le poesie create acquisiscono proporzioni cosmogoniche; ci danno in ogni momento il vero sublime (…) La poesia creazionista si compone di immagine create, di situazioni create, di concetti creati».
L’esaltazione del cosmo biblico-elementare e scientifico-tecnologico, come suggerito da Gabriele Morelli, rappresentano le sue architravi, il suo vero universo e il suo mondo.
Lo scenario della sua anima e il doppio piano spaziale e temporale rappresentano il terreno di una sospensione, di un’immagine alternata e di una sapienza poetica, in cui il poeta afferma una dipendenza con la natura e i suoi processi.
I suoi spostamenti da Buenos Aires fino a Madrid, trovano, però, nel 1917 a Parigi a Montmartre in rue Victor Massè, una sosta decisiva perché «fu là che ho avuto il battesimo di creazionista per aver detto nella mia conferenza che la prima condizione del poeta è quella di creare, la seconda creare, e la terza creare».
È a Parigi che incontra un gruppo di artisti di lingua spagnola, come Juan Mirò e Pablo Picasso (che gli dedica un ritratto) e con il pittore cubista Juan Gris, con il quale, diventando tra i suoi amici più intimi, inizia un grande processo di lavorazione comune e osmosi creativa.
Quando esce Horizon carrè si assiste a un sovvertimento di ogni regola poetica, a un diverso impianto di riduzione e sintesi della struttura di un testo, che elimina la punteggiatura e sposta i margini. Ma il componimento rappresenta l’io: ellittico e frammentato: «Sui suoi ginocchi / Ci sono delle note// Una piccola donna dormiva/ E sei corde cantano/ nel suo ventre// Il vento/ ha cancellato i contorni/ E un uccello/ becca le corde// Il silenzio/ si nascondeva/ nel fondo/ dell’armadio – Ciascuno crede/ di vivere/ fuori di / se stesso// Quando l’uomo/ smette di suonare/ Due ali tremanti/ cadranno dalle sue mani)». Le cose si umanizzano e ciò che è vago si precisa.
Le rapide della primordialità e dell’origine caratterizzano quasi un trauma poetico. In Tour Eiffel, ad esempio, che risente delle sue frequentazioni con l’avanguardia parigina dell’epoca, da Paul Eluard a Guillaume Apollinaire, fino a Tristan Tzara e Max Ernst, l’abbandono dell’immaginismo lascia spazio a una visione simultanea di immagini che fondono modernità, futuro, fratellanza e accensione verticale. L’elevazione è proporzionale a uno spirito che, sulle note di una scala musicale, ascende allineandosi.
I suoi oggetti dimenticati sulle superfici, su cui si fissano moti e gesti, ricordano le nature morte dei cubisti e inscenano un percorso visivo, sonoro e geometrico, laddove anche la sottigliezza dell’orizzonte può assumere altre forme, sorprendere nuove rivelazioni.
Ma è a Madrid, nel 1918, che Huidobro afferma la sua vera originalità poetica. Non soltanto per il ritorno ad atmosfere tenui e sospese, ma anche per il notturno enigmatico che compone la sua pagina, l’intimità acquatica che fa convergere azioni e figure:«L’orizzonte si inclina/ I giorni sono più lunghi/ Viaggio/ Un cuore salta nella gabbia/ Un uccello canta/ Sta per morire/Un’altra porta si apre/ Nel fondo del corridoio/ Dove si accende/Una stella/una donna bruna/ Il faro del treno che parte» o ancora «Ma sei tu/ Tu sola/L’astro del mio soffitto// Io guardo il tuo ricordo naufrago// E quell’uccello ingenuo/ che beve l’acqua dello specchio». Ecco l’immagine che introduce gli stati della coscienza. È nello spazio cinetico, che contempla indefinitezza e situazioni vaghe e indefinite, che Huidobro afferma la sua forza potente. Con Ecuatorial, poema composto a Parigi nel 1918, il cielo e la terra congiungono la loro concomitanza, unendo paradiso e inferno. Il poeta guarda la terra dall’alto, esplorando le tracce delle barriere tra paesi e nazioni, come scrive Jaime Concha: “Huidobro percepisce in questo momento i limiti interiori del centro, che diventa pertanto angolo remoto”. L’acrobazia dell’io-poeta, il suo sdoppiamento, il prometeismo della sua anima, intraprendono un viaggio unico nello spazio planetario. Poesia siderale che oltrepassa limiti e ostacoli e si affaccia, nel volo, sulla voragine e sul baratro del tempo, laddove vuoto, discesa e precipizio offrono un tentativo di riscatto, cercano uno squarcio di luce silente: «Cadi/ Cadi eternamente/ Cadi in fondo all’infinito/Cadi in fondo al tempo/ cadi in fondo a te stesso/ cadi il più basso possibile».
La figura di Altazor, personaggio chiave dell’opera, in un buco di vuoto, vede il Creatore. Percorre, con la sua parola, l’epifania della realtà, penetra la sua ascesa, in un doppio movimento che include ed esclude la solitudine. L’abisso di Huidobro non è disgiunto dall’esplorazione, raccoglie la parola per valicare le frontiere dell’insondabile e instaura un sistema infinito di relazioni che, nella caduta, si abbandona al cratere onirico e alle comete larvali e viscerali della sua voce: «Dov’è il mio cuore/ Dove andiamo e verso dove andiamo/Perduti per sempre».
La caduta è un’orfanità di una traiettoria, la confessione di uno slancio che, nell’istante, invoca l’alto balbettando, domanda all’Infinito il suono del proprio nome. Quando muore nel 1948, Huidobro, definito “l’ossigeno della nostra poesia” da Octavio Paz, sulla sua lapide compaiono alcuni versi. Sono il suo vessillo di sogni e di aperture, cenere annientata dal mare:«Qui giace il poeta Vicente/ Aprite la tomba/ Nel fondo di questa tomba si vede il mare».