La coralità urbana dell’opera di Vasco Pratolini (1913-1991) risente non solo di una tradizione provinciale (Il tappeto verde – 1941), ma anche di una tensione intimistica, memoriale, autobiografica.
Si intrecciano questi mondi nella sua opera come una stessa vertigine. L’impegno ideologico ha nella Cronaca una sorta di coro, in cui ogni vicenda privata assume una proporzione universale.
Ed ecco che il romanzo, così nudo e scarno, denuncia la fine dell’innocenza del sottoproletariato a causa della sopraffazione di una nuova classe elitaria (Cronaca familiare) in un lungo dialogo con il fratello morto, in cui attraverso il senso doloroso della memoria, egli cerca nella sua storia familiare l’origine e la necessità della sua lirica. Sono nudi ma mai soli, e quindi non vinti, nella loro semplicità, i personaggi di Pratolini, genuini nelle loro comunicazioni affettive e nella lotta per la sopravvivenza.
Lontano da ogni letteratura che schematizza ed etichetta gli autori in contesti predefiniti, la sua poesia è espressione di una vita cittadina di povera gente, di amori semplici come baci, di angoli di strade, di notturni e di vie lontane e deserte.
Il vero incontro di temi personali e sociali si realizza in Cronache di poveri amanti (1947), adattatto cinematograficamente diversi anni dopo la pubblicazione da Carlo Lizzani, dove si mette in scena l’esistenza del popolo fiorentino negli anni 1925-1926, già in preda al fascismo dilagante, in via del Corno, cosmo antico del suo vitalismo autobiografico e giovanile, in cui la coscienza politica e l’esigenza di una rivoluzione sociale emergono nell’orizzonte della solidarietà collettiva e in una speranza di vita migliore.
Scrive Salinari: “L’ottimismo di Pratolini coincide con l’ottimismo del movimento popolare italiano dopo la sua liberazione: e confondere quest’ottimismo con l’idillio o l’aspirazione alla pace di classe, significa appunto non saperne valutare l’esatta genesi storica”. Le strade di Pratolini sono vitali espressioni di ideali e di lotte, in cui i personaggi, con “il cuore sul davanzale della finestra dirimpetto”, vivono tra orgoglio e pudore di gesti, tra poetica privata e pubblica vivacità di voce. Ne Le ragazze di San Frediano, scritto durante il 1948 e pubblicato nel 1954 da Vallecchi, lo scrittore apre lo spazio della pausa in una sorta di farsa boccaccesca, di “avventura dei nostri giorni”, ambientata nel quartiere popolare di Firenze San Frediano, lontano dalle memorie dolorose degli altri romanzi ambientati a Santa Croce.
Il vernacolo che offre brio e vivacità all’opera dà voce alla strada, all’ironia di un mondo autonomo ma allo stesso tempo brioso e ben saldo e a una geografia meno autobiografica, dove la figura tipica del popolano fiorentino esalterà la condizione di lotta e di coscienza politica presente in Metello, romanzo delle aspirazioni della classe operaia. Scrive sempre Salinari: “Il Metello è forse il primo romanzo del dopoguerra in cui sono spariti definitivamente alcuni miti del Decadentismo: l’ossessione del sesso, l’esaltazione del primitivo, il richiamo della campagna, il mito dell’infanzia, il gusto del torbido e dello sporco, la seduzione del misticismo. (…) E’ per questo che noi abbiamo parlato e continueremo a parlare di realismo di Metello”. Il quadro sociale che egli traccia, dalle speranze al disfacimento della società borghese, riechieggiata nel recupero montaliano de Lo Scialo, si nutre del rapporto univoco tra vita e dimora, tra condizione e desiderio. Le vie di Pratolini sono le vie di Firenze, città reale e antica nei suoi mercati e nei suoi vicoli, palcoscenico di un bonaria quotidianità in cui la storia si fa ascoltare, in cui appieno si realizza la vera vocazione letteraria di Pratolini: fare “ degli esercizi di calligrafia sulla pelle dell’uomo”.