«Ora è finita. Ora mi sveglio / Ed è quieto e facile l’andare, / quando non c’è più niente da attendere / e niente da sopportare. / Oro rosso ieri, foglia secca oggi. / Domani non ci sarà niente. / Ma stelle ardono in silenzio come prima / stanotte, nello spazio intorno. / Ora voglio regalare me stessa, / così non mi resterà alcuna briciola. / Dite, stelle, volete ricevere / un’anima che non possiede tesori? / Presso di voi è libertà senza difetto / lontana la pace dell’eternità. / Non vide forse mai il cielo vuoto?, / chi dette a voi il suo sogno e la sua lotta».
Karin Boye (1900-1941), poetessa svedese, ancora poco frequentata e studiata in Italia, percuote le striature del vuoto per strappare brandelli lucenti, per appropriarsi della propria anima agonica e in lotta e per essere muscolo fertile di atto e scrittura.
La sua mitologia di affetti svela e rivela «il senso della natura (che in Karin Boye tende a diventare identificazione drammatica con le forze primordiali, archetipiche, di essa, quali il fuoco, il vento ecc.)» e «la ricerca sul piano formale, sono in realtà solo alcuni degli elementi – peraltro acquisiti definitivamente – di una vicenda culturale dalla trama assai complessa ed aperta variamente alle sollecitazioni, europee e non, di maggiore incanto» (Daniela Marcheschi).
Nata a Goteborg, nella parte meridionale della Svezia, da padre di origine tedesca, inizia da subito ad appassionarsi dapprima allo studio della psicologia, dell’etica e della religione (segnatamente quella buddista), poi studiando le lingue antiche e il norreno all’Università di Uppsala, che, come scrive Valeria Consoli, «con tutto quel bagaglio di leggende e cicli mitologici» caratterizzano «l’epopea scandinava e che contribuiscono senza alcun dubbio a farle precocemente introiettare quella dialettica degli opposti, che si esplicita in lei massimamente nella concezione di “bene” e di “male”, di vita e di morte: convinzione questa, cui Karin Boye era pervenuta anche attraverso la lettura di Zarathustra di Federico Nietzsche, da lei definito «il nuovo Colombo» e che le infonde quel culto per la Grecia classica, che nel 1938 – dopo un lungo viaggio avente come prime tappe Berlino, Praga e Istambul – la porta a materializzare e a vivere il sogno dell’Ellade – come lei stessa lo definiva – e a calpestare il sacro suolo di quella, che riteneva essere la culla della civiltà europea: sogno, che in lei si infrange di lì a poco, allorchè – siamo già in piena guerra – la raggiunge ad Alingsas, piccola località nei pressi di Göteborg, dove si era rifugiata presso un’amica inferma, la notizia ferale che le truppe naziste hanno invaso la Grecia: è il 23 aprile del 1941 e, nella quiete della natura, Karin Boye trova la morte».
Ma di cosa è impastata la sua poesia? Cosa cerca la sua formalizzazione? A quali tracce rinviene il suo canto, la sua matrice baluginante ma oscurata, «un tono in apparenza sommesso, la ricerca continua di una musicalità lieve ed insieme penetrante» (Daniela Marcheschi)?.
Karin Boye è un porto sepolto che estroflette la propria stanza interiore, che cova elementi irriducibili in cui «l’incessante tensione verso l’unità, verso l’assoluto, verso una totalità agognata sempre, talora raggiunta e subito persa, ci pare quella di chi presto trova e sperimenta nel mondo e in sé le due manifestazioni dell’apollineo e del dionisiaco, ovvero delle forme trasparenti, del sogno e del caos primordiale, dell’abisso» (Daniela Marcheschi).
In questa segreta dualità trova la finissima membrana della bellezza, fa della scrittura una cortina irreparabile ma che respira la sua dimensione più vera, quella interna, mistero e sperdimento, annullamento e rovina, ma anche battito e territorio nascosto.
La sua forza è primigenia e umbratile, il suo libero abbandono, come scrive giustamente Daniela Marcheschi: «è il soggiacere consapevole alla tragedia della vita. Allora nell’ «orrore» e nella «colpa implacabile» che è quella prima, angosciosa, del venire alla luce, dell’essere ciò che si è, si trova anche la ragione del nostro vivere, la “giustizia” che «è nascosta in fondo alle cose». Per questo, coerentemente, la letteratura per la Boye pare non risulti né taumaturgica né consolatoria o salvifica: rientrando bensì in quella sorta di circuito esistenziale in cui ogni forza, ogni impulso ha in sé il proprio senso, diventa vicenda attraverso la quale la poetessa si prova, gioca fino in fondo la sua partita e ne paga il conto».
Come il caprimulgo, uccello che al tramonto vola sui greggi di capre per catturarne gli insetti parassiti: «Povera la creatura le cui ali / non possono levarsi, / ma solo indugiare, / più forte attratte verso il fango, di cui hanno i colori».
L’eterna lotta tra cielo e terra, per la Boye, diventa ossimoro lontano, splendore che è apice di ricchezza e tormento profondo e sofferto, mentre noi «stiamo soli tra i frantumi, / senza più appoggio per i piedi / come sfere nello spazio – / allora ti s’intravede un attimo, alta Bellezza».
Ecco il suo inseguimento, il sangue che diviene dramma e tenebra ma che accenna il suo pulviscolo di tremore infuocato: «La vita ha un’altra sfumatura – / tremante, tremante ascolta e tace, / quando lucente come la pietra di Vättern nella fiaba / sorge dal profondo il pensiero di te / tutto infuocando il mondo. / Sveglia da poco vedo la realtà / dove sordo sogno poco prima mi oppresse. / L’aria è viva, vita io respiro, / vita di te, di te» o ancora: «Come posso dire se la tua voce è bella / So soltanto che mi penetra / E mi fa tremare come una foglia / E mi lacera e mi dirompe. / Cosa so della tua pelle e delle tue membra. / Mi scuote soltanto che sono tue, / così che per me non c’è sonno né riposo, finchè non saranno mie».
Lo sguardo che posa la sua scheggia risanatrice sulla realtà, ferita e lancinante, fa i conti con il vuoto percepito e vissuto, con il cuore placato che aspetta in silenzio e in solitudine, qualcosa che ha il nome irrimediabile della sconosciuta: «Sai il fono di orrori che non ho visto, / tremo a rompere la tua legge segreta. / Ma conforto sai tu dolce che mi è negato / dal giorno chiaro di sole. / Tacendo ho nascosto presso di te la mia ferita / e sofferto tra le spine, finchè l’anima fu vuota. / Nelle tenebre sfiorasti la spina – lei si aprì / nel fiore di rosa canina».
Scrive ancora Daniela Marcheschi: «La scrittura di Karin Boye, così, nella sua trasparente nudità, nel suo aspetto tutto esteriore di semplicità […] è invece specchio che continuamente lascia trapelare presenze misteriose e conturbanti: quasi fosse un cuneo, essa apre spazi di sensuosa profondità, li dilata arricchendosi di sempre maggiore carica allusiva. In questa continua progressione verso le «terre nascoste», sapientemente insinuata in e oltre una lettera dall’apparenza generalmente elementare, quasi primitiva, sta la seduzione esercitata dall’opera della Boye».
Non è una profondità quieta la sua, o almeno, lo è solo apparentemente. Il suo pericoloso incrocio guadagna l’anima, in cui «Il Destino è un deserto / Là abita Dio […] Il Destino è un pezzo di terra / con pietre a profusione. / Buon per chi le porta temprato: / si guadagnerà il pane. / dentro i saloni del cielo / nessuno va prima / di aver oltrepassato impavido la porta del Destino».
Il sogno, percosso e battuto dalla lesione di ciò che supera la sostanza dell’essere, consuma come amara sete, raggrumando notti e mondi obnubilati come labbra chiuse e male all’anima: «Mi sono strappata alla tua ombra. / Cresce intorno a me. / Cammino per la mia strada / e odo il tuo nome. / Ho scelto la luce del giorno, / e voglio la tua tenebra. / Voglio dare vista e vita per la tua anima e le tue braccia».
La sua oscurità non è annichilimento ma rinvia al respiro fondo, alla germinazione attesa di una privazione e di un vago profilo disciolto «in rombi lunghi, pesanti, uguali, / da cui mai il pensiero si distacca. / Sono fra coloro che appena esistono / e so soltanto e ricordo soltanto / il battito dell’antica oscurità, / che non attende domani, / che non teme domani», ma che afferma il suo fuoco avvinto e vincente, in cui l’attimo appartiene alla perdita e alla salvezza di un’oscura esultanza: «Le immagini vaghe delle cose sciolgono la loro forma / in fiumi di luce cosmica. / I marosi, brillando lunghi, / si frangono onda su onda attraverso l’eternità blu notte. / Tu! Tu! Tu! / Spiegata leggera materia, schiuma fiorente del ritmo, / sospeso, vertiginoso sogno di sogni, / bianco abbagliante!».
Nel suo romanzo Kallocaina, scritto nel 1940, il distopico viaggio realistico, con forti echi kafkiani, affronta un impossibile modello sociale, vinto dalla dittatura che cinge e si fonde nella stanza interiore del personaggio principale, lo scienziato Leo Kall, il quale crea il siero della verità, chiamato kallocaina, che avrebbe il compito di determinare una sorta di stabilità e, all’interno dello Stato. Scrive Alessandro Fambrini: «La visione di Karin Boye è diversa, più radicale di quella di altre celebri antiutopie di quegli anni, [… ] perché è più empatica, meno analitica, pure nella lucidità di una rappresentazione rigorosa; il mondo raffigurato è opaco, informe, privo di contorni, ma proprio per questo i fantasmi che in esso si agitano sono tanto più spaventosi. […] Distorti e tuttavia riconoscibili i tratti del romanzo appaiono come un prolungamento nell’immaginario dei sogni millenaristici del nazifascismo (in questo senso sembrano da decifrare i rigidi ritratti delle città corporative, lo stato permanente di allarme per una guerra da combattere per conquistare inutili territori, gli agghiaccianti esperimenti con cavie umane, la paranoia diffusa che fa sospettare di tutto e di tutti, la propaganda che si fonda sulla mistificazione sistematica attraverso la tecnica, il cinema, la stampa), del terrore staliniano […]. Dall’individualismo al collettivismo, dalla solitudine allo spirito comunitario, questo era stato il cammino di quel gigantesco e sacro organismo, in cui il singolo non era altro che una cellula senza altro scopo che servire la totalità dell’ “insieme”, rappresentano un’evidente degenerazione della società socialista, i cui principi sono portati al paradosso e alla dissoluzione): le ideologie sono confuse e coniugate nel segno del totalitarismo, dell’appiattimento c della distruzione dell’individuo in nome di un’onnipotente società-stato simile a un mostruoso organismo vivente cui è dovuta ogni lealtà, sacrificata ogni aspirazione, mentre il decadimento delle condizioni materiali rende paradossali le affermazioni di principio che pretendono di giustificare quelle condizioni, la distanza tra i principi, tra le parole e la realtà diviene talmente grande che quelle parole crollano e la realtà le travolge».
L’eterno dualismo tra Bene e Male, l’introiezione elladica, il perenne scontro di forze primordiali e divinità recano tremore di inquietudine alla sua coltre spessa e distinta, come un colpo memoriale che attrae e chiama, riposa e crea il mondo dove le stelle dilagano: «Sei la mia consolazione più pura / sei il mio più fermo rifugio, / tu sei il meglio che ho / perché niente fa male come te. / No, niente fa male come te. / Bruci come ghiaccio e fuoco, / tagli come acciaio la mia anima, / tu sei il meglio che ho».
Il suo congedo è altrettanto silenzioso, ricorda impronta di dita e nudità lavate dall’acqua e abbandonate che sente gemere la tenebra come confessione e tormento («Io non voglio morire, ma devo. Non posso vivere, rendo tutti infelici»): «Tu mia disperazione e mia forza, / tu mi prendesti tutta la vita che ho avuto, / e poiché esigevi tutto / mi rendesti a migliaia».
2 comments on “Le terre nascoste di Karin Boye”
Grazie di aver ricordato Karin Boye e di averlo fatto anche attraverso le mie traduzioni.
Cordialmente, Daniela Marcheschi
Grazie per aver diffuso il nome e l’operato di questa poetessa e scrittrice del ‘grande Nord’ ma quasi del tutto sconosciuta in Italia e che io stessa ho avuto modo di conoscere ed apprezzare in qualità di collaboratrice di Iperborea, l’Editrice milanese specializzata in autori scandinavi in particolare e nordici in generale! Valeria Consoli