“Audacia candida”. La poesia di Zingonia Zingone abita questi sentieri liberi e vasti, secondo ciò che scrive Alicia Partnoy, nella silloge “L’equilibrista dell’oblio”, edita dalla riminese Raffaelli, in quanto “la sua poesia si abbevera nelle acque colloquiali di Ernesto Cardenal, si lascia sporcare da quella impura di Pablo Neruda. (…) Come lei, gitana per il mondo, piange il dolore degli oppressi, ricrea i miti, intreccia il quotidiano con l’eterno. (…) Se “Zingonia, la città vivente/ mai fu” o piuttosto fu rifugio degli emarginati e bersaglio dei fondamentalisti del razzismo, Zingonia, la poeta vivente, “è” “.
Cresciuta tra Italia, Costarica e Nicaragua, ma italiana d’origine, Zingonia Zingone (che deve questo nome al padre che volle chiamarla con una sorta di raddoppiamento del cognome) abita una doppia appartenenza.
Non solo per la scrittura bilingue, ma anche per la fusione libera e perfetta di due linguaggi, due tradizioni che si cercano e si uniscono.
Dopo Máscara del delirio (prima 2006 e poi 2008), Cosmo-agonía (2007), Tana Katana (2009), ecco L’equilibrista dell’oblio, crinale di un’anima femminile che percorre luoghi e incide la sua storia, in tutte le declinazioni e coniugazioni di spazio, in una peregrinazione che convoglia passato, presente e futuro, in un profumo di soglia, in una genesi di respiro.
Una squisito porto femminile che si invola negli equilibri di un gesto e di una decisione libera e forte: «Cammina lungo la corda in equilibrio, / le braccia tese/ in sorridente agitazione».
Guardare l’oblio, contornarne il volto, assaporarne la forza, con rischio e gioco di soglie. È nella soglia il suo ampio gesto, che affonda dimenticanze e radici, e testimonia i passaggi lucenti e ombrosi della realtà. Come canto che si scioglie e luce del mondo.
L’incanto che incontra la luce, laddove la dolcezza spaesata degli occhi dimostra la fertilità di un territorio e uno slancio di voce, percorso nel mondo e per il mondo: «Mi soffermo davanti a un volto/ che chiede il mio/ sorriso aperto al mondo / e un canto che nasce / dalle ferite della morte».
Nel battito sospeso, nel contrappeso del buio, nel «torpore rivestito d’insonnia», la primordiale innocenza riconosce la sua beatitudine e la sua ferita, che si ascoltano, o meglio, che si lasciano ascoltare.
Ed ecco che il ritmo, l’andamento, la ripetizione sono uno sguardo, un tempo, una visione: «Amami, ti dico amami/ nel notturno abbraccio del silenzio, /amami/ e taci come fa l’amore, / tu che sei quello, anche quando taci. / sfiorami, ti dico sfiorami/ che dolce brusìo sei/ nell’aprir di petali e non / sfiorami di ali, / di miele sfiorami; / il palmo sfiorami, / nascere come il seme/ che sfiorando posi».
È la sua strategia non pianificata, ferma e netta, per guardare ed entrare, con rapide sapienti, nel dolce tocco del ruolo della presenza della donna nella vita di un uomo, con un accostamento finale di compenetrazione di opposti che lascia «scoprire tutto a un tratto/ che sono fonte battesimale/ luce in fondo al cammino/ un’apnea e il più profondo respiro; / scoprire che lui è ancora triste, / perché è felice».
È il lasciarsi imprimere, come scrive acutamente Pietro Federico, nella postfazione, il suo battito sveglio, il sigillo di un’ unione di quotidiano ed eterno, in un mescolamento di genesi.
La sua poesia che spia gli angoli di Bianca Varela, percorre le voci silenti di una soglia d’amore, di un battito ampio e vertiginoso, come la solitudine franta, come il respiro tenue delle carezze.
Permane in questa poesia, che frequenta i greti degli istanti, una leggerezza di soffi e respiri, un cuore che avverte le fenditure del reale e guarda dentro l’essere, lo vive «nel petto di ogni giorno».
Figurare il gesto diretto della sua poesia significa contemplare le migrazioni, scrutare visioni infrante e «rifuggire lo specchio/ chiudere il volto tra le mani / e cercare lì / il riflesso / di un’umiltà ingannata».
Nelle curve dell’oblio Zingonia Zingone disvela una umanità semplice e sconfinata, la «magia incoerente», per camminare nella verità «con la forza dei martiri/ il distacco dei folli», quando Qualcuno accarezza la trasparenza del cuore e consegna la luce al vissuto, al quotidiano che vibra e riflette l’eterno.
Si tratta di una conquista che ridesta la nostra umanità e il cammino dello sguardo a ciò che si rivela e si compie, alla necessità di appoggiare gli occhi «sulla pietra vibrante del silenzio».
Sono rotte e viaggi tra notti e vene, croci e solitudini nei quartieri del mondo, nelle erranze dei deserti, per riscoprire la natura del tempo e la stoffa della realtà, come le radici –particolare anche la vicinanza di un suo testo con Radici di Frida Khalo- «seme/ nella terra-mondo/ che originò il mio sangue».
È nell’appartenenza che si scopre l’ampio gesto di libertà, quando «il granello di sabbia / riceve indifeso/ l’ira del mare/ la sua carezza/ il suo lunatico andare e venire/ senza frontiere». In quell’andirivieni si rivela la storia e il grande barlume divino cercato «nell’aria immobile del frastuono».
ZiNGONIA ZINGONE, L’equilibrista dell’oblio, Raffaelli, pp.192