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L’imitazione dell’acqua di Federica d’Amato

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Dopo il saggio epistolare Lettere al Padre (Ianieri, 2016) e il libro di pensieri e aforismi Un anno e a capo (Galaad Edizioni), Federica D’Amato (1984), poetessa e scrittrice pescarese, pubblica A imitazione dell’acqua[1], edito da Nottetempo, cadenza la rappresentazione acquea, riflettendola, rappresentando la propria infinita (e infinitesima) lettera oltre la parola.

Lambendo il suo orizzonte, la parola stessa finisce per essere silenzio, spazio oltre il quale anche il suono, materno e sorgivo, imita il linguaggio dimenticato del silenzio e il saluto estremo del tremore: «papà, ti chiedevo, sei mai triste? / sì, a volte capita, / perché tu? / Io sono triste, ecco, / io sono tutti i giorni, sono / la spinosissima rosa della selva tremo / come ogni cosa, / nulla che non viva, / non riposi muovendosi appena / dolente sono triste / sono l’impenetrabile bambina dei saluti».

È il moto di una genesi originaria e primordiale che rappresenta la germinazione del vivente, il simbolo vitale, il transito magico, metafisico e religioso del tempo, simmetrico al reale percepibile.

Nel 1924, lo psicoanalista ungherese Sándor Ferenczi scriveva:

«Alcuni aspetti del simbolismo dei sogni e delle nevrosi suggeriscono l’esistenza di una profonda analogia simbolica tra il corpo materno e l’oceano da una parte, la terra-madre “nutrice” dall’altra. È possibile che questo simbolismo esprima innanzitutto il fatto che l’uomo, in quanto individuo, prima della nascita risulta essere un endoparassita acquatico e, dopo la nascita, per un certo periodo, un ectoparassita aereo della madre, ma anche che, nell’evoluzione della specie, la terra e l’oceano avevano in realtà il ruolo di precursori della maternità e costituivano essi stessi un’organizzazione protettrice, avvolgendo e nutrendo i nostri antenati animali. In questo senso, il simbolismo marino della madre ha un carattere più arcaico, primitivo, mentre il simbolismo della terra risale a un periodo più tardo, nel quale il pesce, gettato sulla terraferma dal prosciugamento degli oceani, doveva accontentarsi dell’acqua che filtrava dalle profondità della terra (e che costituiva nello stesso tempo la base del suo nutrimento); in queste condizioni ambientali favorevoli il pesce ha potuto sopravvivere, per così dire da parassita, per tutto il tempo necessario a realizzare la propria metamorfosi in animale anfibio».[2]

Federica d’Amato raccoglie i suoni dell’origine per vivere il sentimento oceanico, dove i limiti dell’io scompaiono[3], dove poter pronunciare la propria genesi, l’origine disciolta dei frammenti e l’oltremare intagliato:

«Sapevo tutto fin dall’inizio / perché nata da formiche / col volo che cantava senza pace / giugno e le poesie delle cicale. / Furono lotte a fiato corto, / le scappate sopra le colline / sognare un tiro d’oltremare / ma sapere era sapere / restando signorile / l’ammonimento del dovere. / Non lo so cosa volevo / se il rovescio dell’acqua / o continuare la testa tra le mani / arrendermi allo sgocciolare via via / d’una madre non avendo più niente / da bere, prestare finalmente il viso / all’intagliatore del destino».

Percepire così il dileguo mozzato delle cose, sfrondarle per respirare l’eternità, il bacio profondo, la caduta, la salvazione di un amore renitente e di una grazia improvvisa: «È piano che ti abitui alla presenza / giorno dopo giorno / dormi sempre meno / e ora, sì, ora puoi lasciare la gloria / lei, l’indomito flusso, notti levate / fino all’alba per un bacio, uno / uno solo, mio dio, la vita eterna».

L’inizio delle cose è la prima lettura del mondo che sorge, per inseguire le albe, aprire i venti alle vele delle spose e la linea delle mani.

Ciò che si vive affronta anche ciò che può perdersi, in una parola, in un’assenza o in un’immagine ripresa nei mesi neri, negli addii, come graffi nei pianti:

«I mesi freddi senza la colomba, / la fiamma ardente e l’albero / infinito del tuo nome. / I mesi neri di dove si addormenta / anche la notte / e il pane esplode / nella voce di quando Giobbe muore./ I mesi pieni di digiuni cercarti / tra le stelle graffiarti nei pianti / sperando forse di sparire / vecchi e sazi di marmi / sulla cattedra della sopportazione. / I mesi degli addii al paese / della mia afflizione e le discese / infilate nelle lettere in quale  / bibbia incontrarti?».

È la poesia che tocca l’acqua, assorbe ciò che è abraso, le crepe, i cunicoli sfaldati, le ditate. Il poeta sfiora ciò che è depositato, ma anche il detrito, l’altrove, l’ombra sepolta (come riecheggia nel testo dolce e apicale Leggendo Amelia Rosselli), il cuore vivo che sfoglia scaglie e tenta la corrente finale, al di là della «solitudine del mare» e della morte: «Noi volevamo l’io in tutte le cose / e l’ombra dei rami sul bruciare / delle mani che stringevano altre mani, / costruire il nido a chi se ne va. / Gli occhi all’insù volevamo / e il cambio di stagione alla fine delle giacche nelle tasche / degli altri, mai lamentarsi al cadere / delle botte, mai arrendersi alla morte. / Noi volevamo dire delle cose / fuori dal tempo»

Oppure la gemmazione del proprio frantume dischiuso: «Se tu nascevi da una pozza / io perivo nella salitudine del mare / al sole e al vento / tu vorticavi, diventavi il tempo / io sfogliavo scaglie / tentavo la corrente finale: / anche i pesci portavano all’amo / quel che non si poté / più pescare».

La dolenza di Federica D’Amato è un indizio di fioritura, impazienza e appartenenza («l’innocente vittoria delle rose / di cui noi non sapevamo / più niente, / nemmeno il nome o la parte d’amore / la pazienza che ci faceva ancora / giovani, quell’indecenza di sperare / che il verbo sarebbe stato nostro / ancora una volta. »).

L’esito di una lotta, certo, che sembra annullarsi e scompaginarsi, ma anche l’ascolto e l’ubbidienza all’annuncio, all’urgenza, all’essere che deborda e all’ora prima delle cose:

[…] Avevamo scritto un libro / solo per te  / e per la pietra bianca del cammino / che spaccandosi sulla tua strada / suonava al vento / intonava i secoli del tempo / e più si scriveva e più si perdeva / quel suono universale di silenzio / che entrava nel sentire come lana / e più si scriveva e più si piangeva / il capo d’acqua / l’ora prima delle cose.

È istante che vive fino all’ultimo, sacrificio talassale che imprevedibilmente dispone l’agone dei versi e dei ricordi alla danza delle preghiere:

«Ogni giorno il cuore è da rifare. / Ma se solo sapessimo saltare / dalla prua dell’incoscienza… / ogni giorno balleremmo una preghiera, / il buono di chi alle quattro si alza / e niente chiede se non quel fare e rifare / mai nulla che sia meno della dignitosa strada / verso il mondo e la sua tragica capienza / di noci, bottoni, parenti, passaggio / da rifare nel cammino intero del paesaggio / perché in fondo era una questione naturale / quel nostro dignitoso passare da un punto / all’altro bestemmiando o ridendo / il gran salto che non si poté mai fare».

C’è nella poesia di Federica d’Amato anche una venatura che ricama lo splendore, vissuto da un’essenza, prolungato dal reperimento della resurrezione, in ciò che Davide Rondoni ha chiamato, riferendosi a Lettere al padre: «il riconoscimento di una vocazione amputata»[4].

La solitudine emessa in queste pagine è un dettaglio segnato, un rapimento impossibile, un annuncio da un avamposto profondo e spezzato che ricerca il centro vitale che scintilla anche nei fondi minimi: «Rincasare con il sole delle sette / stretto al fazzoletto chiuso / nella tasca del segreto / che prega di dimenticarci / sulla soglia della porta, fare / poi rifare il cesello del silenzio / svuotare le male sacche del mangiare / pan di fiele affilare lame / riordinare paglie al vento / pregare all’inizio della sera. / All’inizio della solitudine».

Nella sezione Addio, Addio, Federica d’Amato sporge i suoi addii nudi. Sono isolamenti, particolari e deviazioni che accentrano la pagina popolata, da tratti e associazioni, riletture urgenti e perdite, come peana impossibile e ricordo:

«Che mai ti videro al fianco / di un fianco solare nei paraggi / di quella pagina chiamata amore. / Ma oggi non hai tempo, / oggi che qualcosa cade in dono per te dalla guizzante memoria / luminosa dei tuoi vent’anni, / oggi non vedi l’ora vai a camminare / sul mare a vedere i chiari della gente / i segni in corsa verso gli occhi, / hai tempo, dici oggi non ha tempo / il tempo c’è il sole non soffrire, / ci penserai più tardi al tardi che lesto / s’abbuia e divora tutte quelle cose / che mai farai in tempo ad amare».

La gradazione memoriale si dispone attraverso la rivisitazione dell’istante vissuto e rivissuto, il rovesciamento della in-finitudine, la sospensione del tempo, il legame musaico tra amore e morte, che qui si fa inscindibile nelle narrazioni frammentate.

Il corpo vivo di questo libro è nella forza di una lotta, di un interstizio di bellezza dove prendere fiato, respirare il fondo acuminato e il prodigio dell’esser-ci, con la stessa caparbia intensità:

«Quando ci rivedremo tutto / sarà diverso / e mi scoprirai cresciuta d’un amore / che ha mangiato poco – / non mi volevi – / ma molto ha camminato / per le vie del pensarti così / fiammella poca della fede / e molto questo amore ha / viaggiato solo vedendo / anche al buio la mappa / di quei tuoi occhi belli / e ciocche rimaste di bambina, / molto si è stancato sotto il / peso del mancare, un insegnamento. / Così cresciuta mi vedrai / all’indietro nel coraggio fresco / delle capriole che arriverai / a volermi, diventerai la mano / del giocare e forse / se sono bella / una preghiera.

Pertanto, l’annunciazione sorvegliata di questa sezione ha una dinamica fiabesca. Si potrebbe aggiungere, un profilo di claritas fiabesca, che unisce parole come briciole, la trasparenza nella filigrana, la bellezza della trafitta assenza, il silenzio delle pergamene e lo spoglio dell’estate: «È da ciliegie che ci ritroveremo  / e ci mangeranno i bimbi /  per fermare il pianto o la sete / e ci riscalderemo dentro i nidi / quando gli uccelli studiano / nell’aria il dono d’essersi incontrati».

A tal proposito, Marie-Louise von Franz, studiosa e psicoanalista svizzera, esploratrice degli archetipi della fiaba che rivelano il Sé, afferma come esso sia «la totalità psichica dell’individuo, ma anche, paradossalmente, il centro regolatore dell’inconscio collettivo. Ogni individuo e ogni popolo vive a suo modo questa realtà psichica»[5].

Così come il congedo, la guancia sulla spalla, il mottetto come l’urlo del prodigio di una figura cara, si raccordano al ricordo permeato dal tempo, all’infanzia vista in ogni andito primo e in ogni domanda raffermata di amore infinito che congiunge illimitatezza e inverno, chiarore di presenza e mancanza rastremata: «Due anni di lanterne accese / contro vento nel pieno degli inverni, / dire sottovoce una parola / ai tuoi capelli quando piove / dirla piano alla carezza del cuscino quando cade / la mia mano più vicino / alla preghiera di chi vede interamente / il suo destino / o la fine del dolore / se girandomi nel sonno / sogno che anche tu eri l’amore».

O ancora: «Crescere / senza di te. / Le corse delle lune sull’acqua / l’ultimo giorno di scuola / la prima casa sul mare / l’altezza della nota / quella volta in cui il delfino / ha sorriso fermando l’onda / la volta di dove la bambina / è caduta sulla stella la bocca / di maiolica che correva con me / che cresceva senza di me… ».

Nell’ultima sezione, A imitazione dell’acqua, l’uscita dall’infanzia-adolescenza porta addosso i cicatrici, le smagliature, gli scorrimenti, per raggiungere la poesia nel silenzio, la sua dimora dolce e tremenda, e la narrazione dell’origine, come il cielo che muove torrenti.

O come la mappa del dolore, della nuda creaturalità del vivente, rilasciata al dramma e al pensiero-madre, fertile e concavo, come nascita lenta o fondo che chiama: «Solo ora capiamo a cosa / servisse l’adolescenza: / a divorare le tende di quando / Saturno non poteva vederci. / Ne portiamo cicatrici e i peli, / le ragazze smagliature / i piccoli nèi cresciuti sulle guance. / Eppure poteva essere la prova / generale, l’esame di natura / disegno a linea / scorrimento veloce: / la perfetta / imitazione dell’acqua.

È il desiderio che si accenna, come un lungo inseguimento oltre la linea del mare, pronunciamento di lune e corolle amate: «Fu nella medicazione di quella sera / che ritrovai / l’azzurra agenda / della leggenda appesa al tuo sorriso / ornato a imitazione dell’acqua: / un albero di catalpa in fiore oltre la linea del mare».

D’Amato F., A imitazione dell’acqua, Nottetempo, Milano 2017, pp. 120, Euro 12.

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[1] D’Amato F., A imitazione dell’acqua, Nottetempo, Milano 2017.

[2] Ferenczi S., Thalassa. Saggio sulla teoria della genitalità, in  Opere. Volume Terzo 1919-2016, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009, p. 266.

[3] Campione G., La nostalgia dell’oceano, (http://www.psychomedia.it/pm/grpind/sport/campione3.htm).

[4] Rondoni D., Le lettere e la non-bestemmia di Federica, (https://www.rivistaclandestino.com/le-lettere-e-la-non-bestemmia-di-federica/), 12 aprile 2016.

[5] Franz (von), M.L. (1969), An Introduction to the Psychology of Fairy Tales”. Le fiabe interpretate, Bollati Boringhieri, Torino 1980, p.2.