La parola battuta sul cuore di Pedro Salinas (1891-1951) conosce la musica leggera e ampia di una furia di nomi e di volti, di ciò che non si dimentica di essere umano e sfrangia venti e musiche in piena.
Vivendo la temperie culturale d enormi lasciti: da Unamuno a Machado, fino a Jimenez, Salinas si disseta alle fonti primigenie del lampo poetico che si fa immagine e materia di anelito e sussulto.
Parole che nascono dall’aneddoto gremente, dal quotidiano che occupa la pagina come leggerezza di abissi, come sommossa amorosa, come monito di occhi.
Le sue peregrinazioni in vari punti culturali europei dalla sorboniana Parigi o Cambridge e Siviglia, e perfino negli Stati Uniti in seguito alla guerra civile, non dimenticano mai un assioma di radici e porti che lo conducono alla Spagna e al suo magma di fuoco.
Sulle orme dell’incertezza, dello sperimentalismo e dell’avanguardia, assimila oggetti e visioni, pensieri di un acme amoroso che si sublima e si idealizza, raggiungendo una forma piena, un crinale di forza e sentimento assieme.
Garcilaso, protagonista che anima la sua opera, «accetta coraggiosamente l’amore come forza centrale della sua vita – egli scrive a proposito di un noto sonetto-, come un potere totale che lo avvolge dalla nascita alla morte, e quest’amore è personificato in una donna che egli vede come consustanziale con la sua propria anima».
La sintonia di dramma umano e figura di donna è al di là della cronaca, al di là dell’amore, in un’accensione sottile di delicatezza di cielo e terra, moto interlocutorio che fiammeggia sulle sponde della dedica e della voce «dovuta», appunto, all’amata e alle stanze d’amore.
Pensiero che dirompe in delirio, in un tu indefinito di Terrore e Bellezza, di spaesamento di canto, di ricerca interiore, come «un’anima all’interno dell’anima».
Percorrendo la terra dell’amore si scopre la ricerca di un cielo inattingibile, di una meta platonica di soglie e viaggio: «Ti sento fuggire, veloce, / dall’aurora, / esattissima, / verso l’alto, cercando/ la stella che non si vede, / il disordine celeste, / tua sola dimora».
Il canto di Salinas è un poema che si distende non solo sul frontespizio, ma anche sul confine incerto della pagina, sulla memoria e sui luoghi che contengono l’io, in una verbalità densa e ricolma: «Al di là di te ti cerco/ Non nel tuo specchio/ e nella tua scrittura, / nella tua anima nemmeno. / Di là più oltre».
La conoscenza dell’amata, l’incontro, il paesaggio dei ricordi sono attesa di esazione e figliazione di anelito elementare, di refrain che avvampa le vicende affettive con lo scandaglio di un verso intessuto di vibrazioni d’aria e di corpo: «E ancora attendo la tua voce: / giù per i telescopi, / dalla stella, / attraverso specchi e gallerie/ ed anni bisestili/ può venire. Non so da dove. / dal prodigio, sempre».
Perché una voce che si deve a qualcosa? Con quale coraggio si incendia il bosco della visione per farsi ombra umana e luce accesa nell’anima?. Sono manipoli di canzoni appostate nella trascrizione di un desiderio di compimento che non conosce pace, finchè non risposa nell’antro dell’amata, nell’esigenza di trascendimento che desta una realtà vissuta, che come scrive Emma Scoles rimane “qualcosa di incompleto e perfettibile, un limite da trascendere nel muovere verso l’obiettivo fondamentale di una realtà ulteriore. L’impulso amoroso aspira a cavalcare questo confine, a sconvolgere la storia e il tempo, a inventare le rovine del mondo, per ricondurre gli amanti ad una realtà primigenia e autentica”.
È nella spoliazione di sé che l’amato conosce l’altro, l’intreccio morbido del canto del corpo e dell’anima, della fratta del cuore, dell’attrito delle proprie coniugazioni.
La ricerca espressiva del tessuto poetico è una trascrizione appesa al frammento del dialogo amoroso, alla composizione dell’universo che strappa nomi, che abita i capillari del silenzio e l’irriducibilità del proprio cosmo che sfiora il mondo in un abito di verde.
Il mondo conosce la sua vigilia, come il vento dei verbi e delle sue divisioni, attraverso gli eventi che nascono, i cavi ritmici che lo abitano: «Trepidazione / per non separarmi/ da te, per la tua bellezza. // Lotta/ per non restare dove tu vuoi: / qui, negli alfabeti, / nelle aurore».
Non esiste mediazione nella sua poesia, anzi la freschezza è lo scenario che converge dentro le cose, che comunica il canto leggero della voce, nello slancio verso l’altro: «Perdonami se ti cerco così / goffamente, dentro / di te / È che da te voglio estrarre / il tuo migliore tu. / Quello che non / vedesti e che io vedo, / immerso nel tuo fondo, preziosissimo. / E afferrarlo / e tenerlo in alto come/ trattiene / l’albero l’ultima luce / che gli viene dal sole».
Le isole di corallo, gli splendori delle lontananze degli sguardi chiari raggiungono le assenze smarrite e le imminenze della gioia, in due anime naufraghe dei cieli.
«La poesia è affidata a quella forma superiore di interpretazione che è le malentendu. Quando una poesia è scritta è terminata, ma non finisce; comincia, cerca un’altra poesia in se stessa, nell’autore, nel lettore, nel silenzio». E lo sbocco di confine del tempo è una palpebra.