Nato a Granada nel 1958, docente di Letteratura spagnola nell’Università della città, ha ottenuto i maggiori riconoscimenti nazionali, come il Premio Adonáis (1982), il Premio Loewe (1994), il Premio Nacional de Literatura (1994) e il Premio Nacional de la Crítica (2003), è stato tradotto in diverse lingue europee, Luis García Montero tenta un raccordo intenso e vibrante tra l’esperienza, il gesto e la dimensione storico-politica.
La recente pubblicazione di Un inverno mio[1], a cura di Gabriele Morelli per Eliot, restituisce, come afferma Roberto Galaverni,
«i riti di ogni giorno, il grande scenario cittadino (Madrid, in particolare), gli incontri con gli amici, le strade, i bar, la gente, la vita familiare. Forse più che in ogni sua altra raccolta, l’inclinazione di García Montero si fa qui intima, personale notturna. I due primi motivi del libro sono non a caso la solitudine e l’amore (il libro in pratica è dedicato alla compagna del poeta, la scrittrice Almudena Grandes), che proprio perché contrastanti finiscono per rafforzarsi a vicenda. Ma, come detto, è sempre l’io del poeta a porsi come punto di raccordi, il che non significa affatto conciliazione, del continuo ondeggiamento tra dentro e fuori, tra adesione alla vita e ripiegamento interiore»[2]
Da giovane, con altri compagni di strada, come Javier Egea e Álvaro Salvador, forma il gruppo La otra sentimentalidad, manifestando i prodromi di una linea poetica che se da un lato guarda all’esterno come accrescimento di sguardo, dall’altro impone il dettato esperienziale come impulso, amore, quotidiana tensione, e attraverso cui la propria partecipazione diventa connubio con la materia vivente, si appropria della datità storica, partendo dall’io, unendo le dinamiche del presente al passato nella temperie del mondo, e, infine, manifestando il territorio ideologico della vita sentimentale, in un confronto di solitudine e ferialità di colori di grida, tavoli vuoti con una sola sedia e rosa della notte che trema nel silenzio: «Uno strano vapore, sogno liquido / che annotta nella pietra, / il passo noncurante del carbonio / e la fantasia delle temperature, / sono forse l’origine / unica della vita».
Nella confessione, dunque, nella comunicazione della memoria e dei suoi depositi (e detriti), l’io dispone la germinazione della sua Stimmung originaria, vivendo il rapporto tra le cose, i solchi solitari dei ricordi (il cappotto in cui chiudere gli occhi, il vecchio amore nel profondo della pelle, il balcone spento), la verità interiore dei frammenti spuri, la fluidità della lingua sul vuoto da riempire e l’Esser-ci del tempo (l’uomo solitario all’angolo, la coppia, la straniera, il vecchio e il musicista) che scrive, così, la configurazione umana del suo inchiostro:
«Arrivare, aprire la porta, scendere / al tiepido rifugio delle notti di pioggia. / Il mondo è temerario nella sua precarietà, / mantiene le distanze / come i poeti superbi. / Ma vi sono rari momenti di pienezza e di abbraccio. / Ricordo certe sere d’autunno / nella mia città color violetto, / buio e gelsomini, / e il dorso del mare / – di prima mattina – / quando l’azzurro e il sole non sono / dei bagnanti o dell’estate, / ma della perfezione del mondo sicuro / della sua verità. / E ricordo anche l’accogliente / sorriso dei bar, / dopo che luci delle loro porte / non abbiano ingannato. / I bar come residui nella pioggia, / nel ventre selvaggio del freddo, nella lontananza / o nella fretta di tutto ciò che fugge».
Gabriele Morelli scrive:
«La persona con cui l’autore si confonde è il cittadino che vive a contatto con gli oggetti e i simboli lacerati della modernità, dove il sentimento di solitudine creato dalle relazioni sociali sostituisce il senso del male baudelairiano, come indica il poeta nei componimenti della raccolta La flores del frío (1991). […] In effetti, oltre che nei confronti della poesia impegnata nella denuncia sociale […] il poeta muove la sua critica ai postulati dell’avanguardia e della neoavanguardia, che propongono una visione fuori dalla comunicazione oggettiva, finendo per spezzare la relazione o rendere sterile e incompresa la comunicazione con il lettore. L’equazione io=noi supera il concetto della poesia realista, che impone la supremazia del secondo sul primo e, di conseguenza, l’esperienza della intimità, da nascondere oppure da celebrare come eventi autonomo. García Montero non vuole separare l’ “io” dal sistema in cui vive e di cui si alimenta, da qui il rifiuto di assegnare al messaggio trasgressivo del linguaggio, come pretende l’avanguardia, la forza e il valore di un enunciato universale. La sua proposta annulla i presupposti delle due estetiche, elimina il divario che separa l’io privato dal suo contorno storico, pone al centro del discorso poetico l’unità dell’essere in cui convivono le diverse istanze, e lo fa creando con il lettore un legame profondo per meglio comprendere il senso totale della vita»[3]
Nella estenuata temporalità, nella immersione del ricordo come suono puro in rapporto al rumore della modernità, i suoi segni coagulano congedi e trascorsi. Attraverso la parabola poetica, da Diario cómplice (1987) a Habitaciones separadas (1994), fino a Completamente viernes (1998) oLa intimidad de la serpiente (2003), García Montero lega spazi ridotti e ordinari all’accostamento corporeo.
L’amore e la quotidianità splendono in un colloquio di ombre e pulsioni viventi, di notturni umbratili e dialettiche scisse di sogni, di passati remoti ed esili di lingua come congiure: «Questa luna tranquilla, / questo lieve rumore di città notturne, / un tavolo senza orario / e diversi veri amici. / I miei amici scrivono, compongono canzoni, dipingono. / La notte e l’allegria sono parole. / L’alcool, la lealtà, l’irriverenza, / la libertà, la storia, sono sempre parole, / soltanto parole. / Ma io non dimentico / che la lingua è la patria del poeta».
Presentarsi, come avviene in Le lingue condannano il disordine che io sono, non è una rarefatta scomposizione autoreferenziale, è l’offerta nuda dei predicati delle alte temperature e dei verbi di neve, dei soggetti sciolti, come nostalgia dell’ordine e intimità aperta: «Il mio nome è Luis, / sono spagnolo, / vivo a Madrid, / al numero uno, via Larra, / per favore, mi dice l’ora, / dove è nato, / e quanti anni ha?, / buon giorno amico, / buon giorno, amore mio, ti amo tanto».
«La modernità della poesia di Luis García Montero», afferma Morelli, «sta nell’invenzione di un dialogo permanente tra quello che impropriamente chiamiamo di natura astratta e il suo contrario; e ancora: tra la presenza del soggetto poetico e gli altri, tra la parola e la metafora del mondo. Su tutto si impone la ricerca della identità, segno di una vera e sofferta inquietudine[4]».
L’io è sempre in viaggio come meta di una finalità rastremata e transitoria:
«S’impara a vivere e a mettere radici. / E conviene che piova sul bagnato, / calpestare la superficie dei fiumi / fino ad essere tranquilli, / fino all’acqua tiepida alla cintura, / con l’orologio ad ore più quiete, / dove sia il ricordo a chiamare il presente / e il futuro sia un minuto perfetto / ogni volta più nostro e più stretto, / perché il vento si calma con carezze / come i cavalli nei giorni di tempesta. / S’impara a vivere, / ad essere corpo ed anima negli occhi che guardano, / nella voce che domanda, / nelle dita che esplorano senza fretta / la pelle dei saluti. / Occorre lavorare la vita. / La collera del tempo si calma con le mani».
È viaggio di confidenza, compendio di autoanalisi, relazione e sperpero di alterità, per indagare la vitalità creativa del rapporto con la realtà, da cui attingere per la forma della poesia, la sua unica cartografia (Vista cansada, 2008) di passato e presente.
E che possa farsi lessico di anima e assedio di nudità senza specchio, di voci consunte, di mappe percorribili e ferite, perché «Nessuno può bagnarsi di lacrime due volte / nello stesso aeroporto»: «Nel portafoglio che consegno non ci sono documenti / ma un quartiere con pioppi e bimbi nascosti, / la luce sui vetri di un balcone / e le prime lettere bagnate dalla pioggia, / l’acqua di ieri che non scioglie / lettere né indirizzi sulle buste. / Non pesa la memoria».
O ancora, quando i segreti conoscono la verità, tutta la verità, più ancora della verità, lo scenario del mondo chiude gli occhi e si assiste a un impronta di mattino e lenzuola:
«Quando chiudo gli occhi sono signore di un nudo. / Ciò che resta senza pelle, dall’altra parte, / più non mi appartiene. / Se son quello che va per la città, / neppure sono colui che passeggia dentro di sé, / con rumore di catene / e la notte che duole ad ogni passo. / Sono nella penombra, sono l’ultimo bicchiere, / il vento sulla riva, / la confessione davanti ai miei, / la porta che si chiude quando arrivo a una casa, / le labbra di un mio bacio, le parole / che parlano di me attraverso una poesia. / Le fiamme dell’inferno / non rispondono del polso ferito dei miei giorni, / dell’impronta dei miei lenzuoli e i miei mattini. / Io sono soltanto quando esco dalle cantine, / più sicuro, più concreto e meno solo».
In Un invierno proprio («Erano giorni di pioggia in un inverno mio», scrive in un verso rappreso e chiuso, come un passo perduto e mendicante nella neve), il riposo della notte sul biancore di lenzuoli si unisce ai tetti e agli angoli luminosi, ai passanti che attraversano la luce. Lo splendore notturno e naufrago del proprio strappo è un caldo di misura, dove la dimora del tempo diviene un invito
«a considerare la poesia un esercizio continuo di interrogazione in un lessico che attinge al vissuto personale e nasce da un contesto preciso: la vita notturna e urbana di Madrid, dimora familiare di Luis. Il quale, a partire dalla prima composizione, non teme di dare al lettore il suo biglietto da visita, di dire la sua identità e il suo indirizzo, volendo affermare insieme le ragioni del suo essere privato e del suo essere pubblico. Poesia dopo poesia, il linguaggio costruisce la realtà. Quanto più il verso appare scarno e falsamente banale, lontano dagli stereotipi della poesia intimista, tanto più rivela una ricerca che può sembrare spontanea ed è invece il risultato di un sofferto scavo interiore […]».[5]
Questa duplicità di scarto e scavo interiori considera il sigillo dell’inverno come lo iato del suo essere e del suo squarciato bagliore («Neppure quella notte / alla televisione. La casa ardeva / oscura come la luce di un disastro. / Sembrò che giungesse accanto alle ambulanze, / un bagliore silenzioso / che camminava eretto / tra i corpi vivi»).
L’esperienza personale avverte tutta l’essenzialità e nudità della materia che vive e che resiste nei deserti della pelle e nel tremante liquore della notte («Ci sono uomini che sembrano un paesaggio / quando chiudono la porta / e sono davanti a noi. / ricordo spesso pupille gialle / con rumore di tristi foglie / schiacciate dall’oscura scarpa della sera. / Ricordo i sorrisi ammantati di neve / simili alla purezza, / quella valle che occulta la congiura del fango»), l’ordine dell’eterno bacio dell’amore e dell’incontro, fino al sentimento di separata essenza del dettato affettivo nella rosea complessità del mondo: «Per questo scrivo perché mi leggano, / e curo le parole, e inseguo / la realtà nei suoi significati, / e cerco nell’ordine dei miei occhi, / nella prosa del mondo, che il realismo del Sud / ci dia appuntamento in una piazza con le sue palme, / che il Nord non dimentichi la neve / e che tu mi dica di sì / e venga con me».
Gabriele Morelli commenta:
«L’ultima strofa, formata da due versi brevi e martellanti, traduce assai bene, nella prevalente sincronia dei suoi accenti monosillabici, il passaggio dal monologo dell’io al dialogo con l’altro, qui la persona amata. L’improvviso scarto creato da due versi, separati dal resto del componimento, traduce plasticamente la direzione di uno sguardo che non mira solo a se stesso ma va anche a chi è vicino e attende la chiamata: un ritorno all’intimità amorosa, tema centrale del libro, destinato ad attenuare il carico esterno e il dolore quotidiano dell’esistenza».[6]
Inoltre, è l’amore la sua patria pellegrina e il diavolo impuro del suo tempo, nel volto di Almudena Grandes. La sua linfa vive in questa riflessione precisa che ha una destinazione di rara e vigorosa vertigine, che stringe le lunghi notti d’amore «per bere la pioggia dei mattini / che disegnano un cerchio con due corpi al centro» all’improvviso naufragio, al frantumarsi cardinale delle onde alla perdita e al dolore del mondo imperfetto, nel respiro dei sogni:
«Quella prima passeggiata in qualche città / che ancora trema nelle mani del viaggiatore. / La luce dell’aria limpida dopo aver stretto / un patto senza dèmoni / nella quiete dei ricordi. / Un tramonto nella Baia / quando il cielo si perde come i rossi uccelli / che volano in segreto verso il buio. / Il paziente nudo che ci acceca gli occhi / per vivere dentro la camicia. / L’impaziente nudo che apre le lenzuola / e riesce a convincerci che comunque è nobile / lo sguardo di questo mondo imperfetto. / una conversazione dove lei mi racconta / le cose del suo giorno / prima che io racconti le ore della sua notte. / L’amicizia, luna che gira nel tempo / e splende rotonda fino all’alba».
Come in questi passi di oscurità cadente come luce: «Così quando torno a casa / e il mare mi riceve nei miei occhi castani, / il mare azzurro e libero / con spuma di agosto nello specchio, / ringrazio la vita / l’occasione che mi ha dato di guardarti. / Sei in me come un mio paesaggio. / Le tue onde e le tue barche mi accompagnano».
O celebrando la lingua delle lente sillabe notturne nella profonda intimità: «Così diversa la pelle, / il paese del tuo bacio, / una lingua con lente sillabe notturne, / un mondo di abitudini assai diverse / che segna negli orologi condivisi / la differenza oraria della nostra intimità. / Il sole va avanti sulla pelle del tuo bacio. / Quando io apro gli occhi, tu li chiudi».
La densa frattura di García Montero si afferma in tutta la dettagliata linea del giorno: la vita dei bar, la notte e gli amici. Un luogo, un rifugio dove poter inserire il dramma della inquietudine riflessa, il quieto silenzio («Voglio conoscere la tua notte, la tua sete, i tuoi impegni, / il tuo vivere tra le sillabe che formano il tuo nome, / il tuo addormentarti, il tuo vado a dormire, / il tuo quieto silenzio, il mio quieto silenzio, / le cose che mi accadono quando mi sogni»), e, meglio ancora, il pronunciamento oscuro della propria identità che si porge, dapprima raccolto in un movimento astratto, poi condensato in una perdita di notti inevitabili:
«Nel fumo di luci, cartelli, altoparlanti, / occhi frettolosi, mani con il cellulare, / vetrine veloci, mendicanti, / semafori fermi, / musicisti ambulanti, dialetti di strada, / movistar, samsung, nokia comunque / non mi sento perduto. / E tuttavia, / quando sento i rumori di casa mia, / quando sopporto il traffico che c’è nella mia memoria, / quando passeggio dentro un ricordo, / e apro i cassetti, cerco negli armadi, / e frugo sotto il cuscino, / mi sento lontano, dannato e triste, / come una bandiera inutile».
Ecco il volume della sua retrospettiva. La sua geografia di sogni in camere separate, di case perdute che invecchiano, chiudendosi lentamente, di vestiti che dormono ai piedi del letto, di nudo amato che consola e viene coltivato come un’impronta o un mormorio disgiunto.
[1] García Montero L., Un inverno mio, a cura di Gabriele Morelli, Elliot, Roma 2018.
[2] Galaverni R., I segreti di colui che ama Almudena Grandes, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 17 febbraio 2019.
[3] Morelli G., Luis García Montero, poeta del nostro tempo, in García Montero L., Un inverno mio, cit., pp.7-9.
[4] Id., cit., p.23.
[5] Id., cit. p.12.
[6] Id., cit., p.14.
García Montero L., Un inverno mio, a cura di Gabriele Morelli, Elliot, Roma 2018, pp. 163, Euro 17,50.
García Montero L., Un inverno mio, a cura di Gabriele Morelli, Elliot, Roma 2018.
Galaverni R., I segreti di colui che ama Almudena Grandes, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 17 febbraio 2019.