Antologica di Nanni Balestrini (1935), esponente di rilievo della neoavanguardia, nel gruppo dei poeti “Novissimi” e nel “Gruppo 63”, percorre un corpus di testi di oltre cinquant’anni, dagli esordi de Il Sasso appeso (1961) fino al più recente Caosmogonia (2010), passando attraverso il surrealismo controverso e contradditorio della Signorina Richmond (1974-1999), e la stagione dei componimenti politici come Non capiterà mai più (1972), che mette a fuoco la manipolazione dell’informazione durante gli anni Settanta, i cosiddetti anni di piombo: «Le masse si stringono / in piazza per l’intera giornata / i manifestanti hanno tenuto / stanotte verrà la fine del mondo / salgono i prezzi scende la lira / la lotta per la salvezza / è tutta una farsa / i veri responsabili / non ci sono».
In un’intervista concessa ad Alessandro Zaccuri su “Avvenire”,che indagava l’origine del Gruppo 63 Nanni Balestrini disse che l’esigenza permanente era quella di «esplorare le possibilità del linguaggio, forzare il confine tra significante e significato, di volta in volta storpiando o anestetizzando le singole parole. Sapevamo che questo procedimento non poteva essere portato alle estreme conseguenze, altrimenti ci saremmo trovati alle prese con meri suoni. Un qualche significato la parola lo conserva sempre».
L’esplorazione del lingua concede alla poesia la «possibilità di opporsi efficacemente alla continua sedimentazione che ha come complice l’inerzia del linguaggio», per creare uno «spiraglio tra le cupe ragnatele dei conformismi e dei dogmi che senza tregua si avvolgono a ciò che siamo e in mezzo a cui viviamo» in cui scardinare la frattura tra autonomia e eteronomia, intensificare la relazione tra scrittura e possibilità di rappresentazione della realtà.
L’approccio teorico-poetico, se da un lato si misura con l’arduo e pirotecnico scardinamento della lingua e con la destrutturazione delle forme poetiche, dall’altro capovolge il canone classico e si allontana dalla comunicazione di massa come prodotto sociale reificato, finendo per portare alle estreme conseguenze l’alienazione idiomatica e assumerla come degradazione del materiale linguistico.
Nell’interessante introduzione al testo, Ada Tosatti, inseguendo le linee predilette da Balestrini, la combinazione e il taglio, scrive che «L’attività poetica è concepita come ricombinazione di frammenti linguistici preesistenti, pezzi di realtà prelevati indifferentemente dalla lingua parlata, dai testi letterari, dai media, al fine di ridurre il codice linguistico a una sorta di “grado zero” della significazione. L’oggetto della poesia diviene il linguaggio stesso […]».
L’abbandono della dimensione referenziale si spinge fino allo straniamento, raccoglie gli sfaldamenti e le deviazioni sintattiche in un’unica vertigine di senso, capovolge lo sviluppo dei temi, intessendo il testo di ripetizioni, assonanze, significanti estesi.
Il montaggio, declinato nelle forme del collage, del cut-up e del fold-in, non chiude le immagini in una raccolta di elementi, bensì tenta la via incongrua dell’accumulo e della sovrapposizione: «E intensificare la frattura facendone un elemento / di accusa e il giorno dell’impazienza e trasformabile / che pronuncia si districa e un futuro evocato / solo a forza di volontà l’emendamento delle cose / guaste e lo abbiamo fatto tutto deliberatamente».
La demolizione e la rottura franta dei codici comunicativi che si immerge nella realtà multipla e ambigua e in continuo movimento, definisce la sua poetica in atto, sostituendo la creazione con la produzione: «La poesia dovrà più che mai essere vigile e profonda, dimessa e in movimento. Non dovrà tentare di imprigionare, ma di seguire le cose […] ed essere […] ambigua e assurda, aperta a una pluralità di significati e aliena dalle conclusioni per rivelare mediante un’estrema adere3nza l’inafferrabile e mutevole della vita».
La funzione mitopoietica, che si oppone allo sclerotico e automatico disguido e abuso di segni e l’anemia amorfa di forme, frasi, espressioni, tende a inseguire un’etica eversiva, una estrema coerenza cogente, che possa anche esplorare la dimensione visiva e il sostrato grafico della parola, amando il frammento, il bianco vuoto, l’assenza reificata e concreta.
Il realismo linguistico prova ad oscillare tra due poli netti e nevralgici: «l’astrazione modellizzante e una referenzialità […] come una concretizzazione degli oggetti sociali che non avviene tramite la mimesi dei referenti ma attraverso una «imitazione linguistica del linguaggio» (Ada Tosatti).
Il linguaggio di Balestrini fonde l’intelligenza rivoluzionaria con lo spazio esplorativo, la conoscenza del visibile con la sperimentazione grafico-visiva e critto grammatica, che occulta la parola, sporgendola, e, infine, dissezionando la forma metrica: «prima di tutto non c’era / là dove sono rimasto / mescolato al buio / che nel sintomo spesso / anticipa la resa / sfracellato intatto / là dove non siamo / saremo non c’è più / posto nel tempo / finestrino scor /evole verde la / erbale limita ma / le cose non sono ci / stringiti il vuoto».
Il fitto groviglio del fondo poetico stuzzica il dicibile, gli tende un agguato, lo rompe, per sfrangiarlo nelle sue qualità irrisolte, fa confluire il dionisiaco e l’apollineo, l’irrazionale e il razionale, l’utopico e lo storico, il reale e l’onirico, in un’unica e decisiva forza linguistica centripeta, che destina il suo equilibrio a ciò che è confuso, inghiottito, oscurato: «L’albero cioè un albero / verbale cioè un albero / il verde è un albero / l’albero della pubblicità / albero sensibile / l’albero dell’albero / e ci sono altri alberi».
L’esperienza del ’68 fa confluire, nel suo sguardo poetico, il magma del reale, facendo emergere appieno la genesi di un’emergenza e il senso collettivo di una parola che non esclude nulla, includendo tutto.
La pratica sovversiva della scrittura estremizza la “pacificità del lettore” e il suo labirinto, per distoglierlo dalla ripetizione annaspata, dall’indolenza frammentata, per riconfigurare i linguaggi e indicare una possibile via di sovversione tra individuo e società.
Le circonvoluzioni linguistiche, i prodromi della attenzione, quasi trobadorica, per i processi comunicativi, forniscono brandelli e frammenti, amano attingere dalla lingua viva rivoltosa, per creare un flusso disomogeneo e coeso, allo stesso tempo, come la signorina Richmond, creatura allegorico-metamorfica e immagine della concatenazione enunciativa: «La scelta stessa della forma della ballata, la musicalità e la più grande leggibilità di questi testi, – scrive Ada Tosatti – testimoniano la volontà di stabilire un rapporto diretto con il “pubblico della poesia”».
L’oralità e la coralità si allineano alle trasformazioni politiche. In questo, la funzione mitopoietica raggiunge l’apice, scomponendo i dettami delle strutture dell’ideologia borghese e trovando forza nell’energia e nello spirito delle masse, nei movimenti e nei conflitti sociali, nell’incontro superstite di singolare e collettivo; e a dispetto dell’oscuramento, della morte, non viene meno la irriducibile istanza primordiale: «ci fu un gutturale grido collettivo quando le luci si spensero».
Il dettaglio, la sospensione, l’incertezza scomposta e contingente, il riflusso dell’esilio «pieno di mosche / nel paese immobile / diluita dimentica / la fase precedente / si dividono in / lupi / nella gabbia e / sciacalli / intorno strillano / la fine della», nel vilipendio linguistico, nell’agguato e nel saccheggio, sostengono il valore e il metodo del mito, che diviene un’istanza ragguardevole di ricerca e sottrazione all’emergenza. Terminano, pertanto, nel ritmo onirico e incantatorio del gesto, della fisicità del mondo, della primordialità sopita e liberata. Il ribaltamento (Caosmogonia) dell’ordine cosmico offre la sua sponda di coincidenza di opposti, di immagini possibili e di uno strenuo coacervo di realtà. L’opera si raffigura aperta e scomposta. Aperta al senso, assediata dal silenzio, esplorata dall’assenza del suo sfinimondo: «il linguaggio e il corpo rappresentano / le due frontiere ultime / il tentativo di elaborare un sistema di scrittura / che riproduca il medesimo cortocircuito / che avviene tra dinamicità esterna / corpo in movimento e pensiero in movimento». La dinamicità dei segni si proietta fino all’infinito, si attua nelle composizioni come concretizzazione di flussi ininterrotti, sconfina, superando ogni limite e decostruendosi. L’essenzialità del montaggio (monstrage) abbatte ogni spettacolarizzazione, per farsi qualità in divenire, e poi slittare, scorrere nel moto perpetuo delle immagini e dei rinvii. Il flusso dinamico, quindi, ripete la sua differenza, come ripetizione e assemblarsi di forme, diviene apertura e guizzo cosmogonico che muta in continuazione, sosta nelle fratture amare e allegoriche, unisce rivoluzione e resurrezione.
Forse una via di fuga, un indizio ambiguo: «il nostro mondo sta scomparendo / i tramonti succedono ai tramonti / si può sentirne lo strappo silenzioso / scorrere il sangue la vita che fugge / su fogli di carta corrosi sbiaditi / accarezzando le parole ancora visibili […] l’attacco va minuziosamente preparato / non più dominanti e dominati ma forza contro forza / si può sentirne lo strappo sonoro / scorrere il sangue la nuova vita che arriva».