Il nuovo libro di Giuseppe Panella (1955), docente di Estetica presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, L’occasione della poesia. Poesie 2007-2014, edito dalla novarese Interlinea, è l’esito di una gestazione autentica che modula il tessuto vocalico con forza e scoperta.
L’interiore inseguimento che il poeta percorre, cerca l’indizio di un’occasione per compiersi e dirsi in tutta la portata del suo dettato e del suo grido.
La ricchezza verbale e le letture assorbite in questi anni rappresentano l’arsi di una scena asseverativa e descrittiva che si pone come voce ultima, come spazio connesso alla chiarezza estrema del quotidiano, dove la poesia cerca le sue armi e pone le sue gioie e i suoi dolori ultimati.
L’occasione della poesia, modulata in una singola espressione rispetto ai plurali passaggi montaliani che si scontrano, radicandosi, con la bufera del mondo, percepisce, invece, la letteralità di una condizione e di emblema di limite.
In tal senso, quando le parole del grido descrittivo risultano lontane dalla tregua e dalla salvezza, la lettura di Panella diviene la forza-prova che sfoglia la posizione che definisce il mondo, come primo abbaglio di purificazione e nuovo sguardo.
Scrive nella nota introduttiva Carlo Fini: «Credo che sia essenziale chiarire che l’autore ha scritto questi versi in un momento di estrema difficoltà, dopo essersi trovato tra il vivere e lo scomparire, proprio nel significato letterale della parole. Da un simile stato d’animo – strettamente correlato anche alla quotidianità – nasce lo scontro fra serenità e sofferenza, fra dolore e piacere. Il poeta afferma, con lucida chiarezza, che non è la morte che lo intimorisce, ma il proseguire nella desolazione e nello sconforto».
Il titolo, allora, diventa il punto infiammato che lega i versi e accompagna la nitidezza di una prova e di un’ombra. Non è un dolore asfittico e inenarrabile che temporeggia sugli occhi ma il respiro libero che fa i conti con lo strappo scandito del nulla, la lotta strenua con la morte e l’emersione di un gesto che, come scrive l’autore nelle Note al testo, trae forza e decisività da ciò che il dolore, la fatica, il disagio, la noia cadenzano ma che, allo stesso tempo, aprono un varco di speranza sottile.
Questo inseguimento, insistito nella sua drammatica inevitabilità e invincibilità, «si può trasformarlo in una possibile forma di serenità attraverso un progetto di vita», poiché «scrivere poesia e cimentarsi con questi temi grandi e ormai antichi quanto il mondo può aiutare a dare al dolore lo spazio che merita ma limitarne i confini e renderli più elastici, più flessibili. La mia poesia vuole essere, allora, un prolegomenon al dolore, un sondaggio alla sua verifica relazionale, un tentativo di dare al dolore non tanto una giustificazione perché non l’avrà mai quanto una possibile catarsi operativa, rendendolo un progetto di recupero delle radici vitali dell’esistenza e della sua modalità di sviluppo il più possibile armonioso».
L’esposizione preliminare non chiude il cerchio ma lo apre, sfrangiandolo e modulandolo, in un azzardo mirifico e vitale che “condanna” e desta stupore, ma che trasforma la sua meta in un bersaglio possibile e in una forza ritrovata e sperduta: «L’occasione della poesia è la poesia stessa / quando ritorna, come un rimorso da sempre / rinnovato o un’assurda virtù da ritrovare / intensa nel campo infecondo del rimpianto…».
L’autenticità della voce sopravvive alla profondità e alla tessitura vertiginosa con accenti persuasivi che non assopiscono la trama del canto bensì, in una enclave di esilio e approdo, e persino nell’incerta resistenza, concedono sorgenti viventi, come il sale della terra: «Eppure, anche se non sovente, credo di vivere / In un mondo di cui sono il sale della terra… / Credo che tutto quello che ho fatto e non ho fatto / Valeva la pena di essere vissuto, / Anche se il risultato è poi mancato alla storia…».
La dilatazione compiuta rappresenta il bilancio di un giorno risorto che proclama l’ambizione protetta del vivere, la sua continuazione e la sua lunghezza senza fine: «ho visto giorni migliori / e momenti peggiori, / sono stato costretto a mangiare il sale / della sofferenza del corpo / e mordere l’angoscia nel cuore / ora ho soltanto bisogno di tempo – / di serenità nella sofferenza, / di sofferenze intinte nella serenità / che ancora si congiunge / all’ambizione protetta / continuare a vivere / nella gioia e nel dolore».
Il valore fecondo del desiderio del mondo è l’esercizio di una tensione che è cammino, lavoro personale e percezione ascetica tesa a verificare o meno la datità del reale. Il sentimento, pertanto, richiede una visione come se fosse una lente che più raggiunge l’energia conoscitiva dell’uomo più l’impeto della ragione è in grado di conoscerlo con acume e sicurezza.
Percorrendo le linee di Berkeley e il suo immaterialismo percettivo, il poeta scrive la sua linea di comprensione che custodisce istante per istante, barlume dopo barlume, la fatica di prendere in mano la vita guardando in faccia la realtà, per permettere alla libertà di scoprire la verità di ogni passo, di ogni abbandono di pace, perché, come scrive Emmanuel Mounier in una lettera del 3 gennaio 1933, ora contenuta in Lettere sul dolore, «Occorre soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne»:
«[…] Berkeley sorrise: esse est percipi, mormorò, / ma è il Signore Iddio a percepire il tutto / per tutti e a dargli una ragione d’essere. / C’è Qualcosa che regge la vita / e rende impossibile che sia solo delirio ed illusione: / l’occasione del mondo risposa su di lui e su lui solo / e gli uomini ne sono il riflesso / fatto di gioie dolori e ragionevole dubbio / come tanti spettatori nel consesso / della battaglia di ogni essere vivente con se stesso».
Luigi Giussani, commentando Mounier e recuperando la tradizione tomista per cui l’essere è dove agisce, scrive: «Che la verità nasca dalla carne significa che la verità deve determinare un cambiamento – che la riveli presente – […], significa che deve determinare un cambiamento nel comportamento verso te stesso, nel modo di guardare te stesso, di sentire te stesso, di sentire fluirti dentro l’attaccamento all’esistenza, nel modo con cui reagisci al sentirti dentro tremare tutto o stancarti o annoiarti, nel modo con cui pensi al tuo passato, nel modo con cui tu guardi l’azione compiuta, nel modo con cui tu guardi questo presente, che sarebbe pieno di uggia, pieno di niente, di aridità, deserto, “nomi senza perché”».
La dura lotta tra il limite e il nulla, il dolore cieco e la malattia rauca del dolore tremulo che «parla sempre la stessa lingua / e dalle sue parole non si deduce niente», quando manca la terra sotto i piedi, quando «la presenza si rastrema in un rapido / spegnersi di luce», quando sconvolge di più la vita finita in pianto piuttosto che «il repentino suo / Spegnersi nella pozzanghera infinita del non-esserci…» ha bisogno di uno sguardo pieno di tenerezza e di amore che indica il cammino, superando l’incertezza del fiato, come «sorriso in una lunga notte / di disperata allegria e di mistero […]».
Come l’io in relazione che non teme lo specchio e lo sfronda: «Abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri, / nessun uomo è un’isola – si pronuncia il Poeta… / nessuno può sfuggire alla legge universale / che parla di passione e di morte, / di desiderio e di paura, di coraggio e di fuga…/ se l’altro è senza nome e si rifugia nel pianto / non conviene perdere l’occasione e trovare / nello scarto tra sogno e rimpianto / un nuovo modo di guardarsi allo specchio / senza rifiutarne il riflesso e l’abbraccio…».
La sfrontatezza nostalgica del tempo stanco è reperto di un dolce richiamo di attesa e riscatto, nella vibrante fatica che insegue il sogno proteso alla profondità insondate e insondabili, al respiro del futuro in una nuova sonorità risorta, alla felicità condivisa e alla memoria: «Oggi ho ascoltato / Il suono della mia mente / E ne ho dedotto che il vuoto / Può essere colmato / perché non c’è spazio o dolore / Che non si possa attraversare / Quando si avverte il senso del passato / Come passato e non come avvenire / Nel tempo stretto del desiderio… / Lasciamo scorrere i passi dello scarto / Verso l’abisso / Lasciamo campire il cielo / Sopra il burrone sprofondato dell’oblio / Lasciamo che le stelle tornino a brillare / Nel cielo sopra Berlino….».
O ancora: «Le vite del passato sono ancora intatte / quando la memoria le riscatta / e ne ritrova fondamenti e valori, / bisogni insoddisfatti, / necessità primarie rimaste irrisolte / e desideri che sono eguali per ognuno, / brucianti e travolgenti come un sogno / La memoria di tutti è un sobrio patrimonio / che rimane indiviso e mai taciuto / quando sembra che tutto sia finito nel nulla, / e non ci sia più né salvezza e né speranza / di poter resistere e trovare / uno sbocco possibile e opportuno / al peggio che incalza…».
Le sue res amissae, che richiamano le trascendenze mancate e ricercate di Caproni, rappresentano il dono ontologico di un seme infinito che invoca compimento e rinasce continuamente: «resa missa è il tempo di esistenza / ma ciò che resta e mai non si consuma / rinasce nel suo mondo e poi riprova / come se fosse ogni volta cosa nuova…».
L’amore coniugato da Panella è sottile come la precisione dell’orizzonte, dolcezza di un’apertura di occhi e corpo docile: «Il suo corpo era dolce / e morbido, pieno di inaspettate asperità / sormontate da un picco di solitudine / che si intravvedeva ogni tanto, nel suo tempo, / emergendo al tatto squisito di un polpastrello / umido e docile, di una mano larga e tranquilla, / di una lingua sottile e inconfondibilmente lusingata / dell’attesa che sgorgasse il piacere. […] il corpo attonito nel presentimento della pienezza / di ciò che sempre è / e non soltanto e semplicemente accade… / Il suo luogo era sempre lo stesso e ad esso / si affidava per saldare sentimento e furia / d’amore, rabbia del possesso e dedizione totale / all’altro prescelto e incompiuto…».
La coincidenza dei riflessi di luce e ombra potrebbe porre anche l’evocazione di un mancato incontro, come se il potere del semplice oggetto, del fatto reale e dell’occasione non abbia più il potere di riscattare, di far penetrare la scialbatura dell’eterno nell’effimero. Ma è solo un’opzione perché il tempo non trascorre invano e il giorno rimane nel suo sapore potente che non svanisce, proclama il suo giro di giostra, la sua infinita e definitiva ora di splendore, come il grido di una mano tesa.
GIUSEPPE PANELLA, L’occasione della poesia. Poesie 2007-2014, Interlinea, Novara 2015, pp. 96, euro 14,00.